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Cronaca

La calma apparente alla porta degli inferi. Auschwitz, il viaggio che non si dimentica

Nel campo di concentramento nazista furono uccisi 7500 ebrei italiani, con 64 aretini deportati: il silenzio e gli spettri dell’Olocausto

La calma apparente alla porta degli inferi. Auschwitz,  il viaggio che non si dimentica

La calma apparente alla porta degli inferi. Auschwitz, il viaggio che non si dimentica

Boni

Un lungo corridoio di cemento grigio, senza tetto, come una cicatrice che ancora sanguina, un taglio che non rimargina, tra due fette verdi di terra circondati da salici piangenti che oscillano nel silenzio. In alto, solo il cielo terso, senza confini e senza fine. Silenzio. Tutto è seppellito qui, da qualche parte, è la calma apparente della porta degli inferi.

Quando oltrepassi il primo varco e ti immetti nel cammino che porta al celebre cancello con la scritta “Arbeit Macht frei”, “il lavoro rende liberi”, l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, ecco che una voce rievoca nel silenzio gli spettri e ricorda i nomi dei morti, ora tutti nel vento, uno per uno.

Impossibile anche solo immaginare i loro volti e fare proprie le loro storie, impossibile udirli tutti, lungo quel tragitto, quei nomi, sono troppi, ma non improbabile carpire anche gli ebrei aretini deportati e uccisi qui: Birkenfeld Ignaz 49 anni e Antonio Ehrenwert 36 anni, marito e moglie, lui slavo, lei austriaca. Arrestati ad Arezzo e deportati ad Auschwitz. Carolina Lombroso Calò, moglie di Eugenio, 31 anni incinta del quarto figlio insieme ai suoi bambini: Elena Calò (7 anni), Renzo Calò (6 anni), Alberto Calò (un anno e mezzo). Deportati ad Auschwitz e deceduti all’arrivo. Heinrich Rsenfelder, 50 anni, ebreo tedesco arrestato a Bibbiena e deportato ad Auschwitz. Deceduto anche lui.

Sono 7500 gli ebrei italiani morti ad Auschwitz su un totale di circa un milione di vittime. 675 furono i deportati solo dalla Toscana, 64 da Arezzo (città gemellata con l’attuale Oświęcim, nome polacco di Auschwitz).

È così per tutti coloro che varcano quei cancelli ed è stato così anche per il gruppo di 54 viaggiatori della provincia di Arezzo che ho accompagnato di recente in un viaggio della memoria che nessuno di loro indubbiamente dimenticherà, organizzato dalla Misericordia di Cavriglia e San Giovanni, dalla Parrocchia di Cavriglia e dal Comune.

L’abisso in cui viene inghiottito chi visita questo luogo è senza fondo. Ed ogni volta che torno il pozzo sembra sempre più buio e più profondo perché le domande sono infinite e le risposte nessuna. L’ade si cela negli edifici in mattoni rossi che ospitano il memoriale, circondati dagli alberi e il percorso museale che narra tutte le atrocità subite da chi transitò da qui durante la seconda guerra mondiale: i capelli ammucchiati, le valigie, i cocci, le pentole, le montagne di scarpe e di occhiali, e poi ancora i vestiti, le coperte, le protesi e infine le terribili prigioni sotterranee, le camere a gas e laggiù, semi sepolti, l’orrore dei forni crematori.

Chi arrivava qui non sapeva dove era, dove veniva e quale destino lo attendesse. Le pentole portate con fatica con se, lungo un viaggio atroce lungo anche migliaia di chilometri in tradotte impregnate di malattie e di escrementi, stanno lì, ammassate in una stanza, a dimostrare che chi arrivava ad Auschwitz sperava di continuare a vivere, non di morire. Invece la maggior parte di coloro che arrivavano venivano passati subito nelle camere a gas. A partire dai bambini. Con i loro giochi, le loro giacchette, i loro sogni, rimasti per terra lungo un binario.

Nessuno nel corso della storia dell’uomo aveva creato una fabbrica della morte come questa. Nessuno, prima dei nazisti, aveva mai ideato un’industria che quotidianamente uccideva e bruciava sistematicamente migliaia, migliaia e migliaia di bambini, donne, anziani e uomini solo perché ebrei o appartenenti a minoranze etniche.

"Forse il Parlamento europeo avrebbero dovuto realizzarlo qui, non altrove", mormora qualcuno di noi. "È qui che è nata la radice di un’Europa che nel 1945 appariva solo un’utopia, nella cenere umana".

C’è chi piange, chi esce a cercare l’aria, chi si tiene le mani e perde la vista, chi chiude gli occhi, chi invece li alza al cielo, oltre i grandi camini in mattoni dai quali il fumo acre che s’innalzava in alto, si perdeva tra i venti del nord e spandeva tra le nuvole una neve composta da ceneri umane oleose.

Nessuno dovrebbe vivere nel mondo senza essere passato da qui almeno una volta. In mezzo al nostro gruppo di persone di ogni età, lavoratori, pensionati, insegnanti, operai, spiccano i volti luminosi e pietrificati di una bellissima manciata di ragazze sedicenni di Cavriglia. Sono attonite. Non parlano. Annichilite. Il silenzio contiene l’orrore e la dimensione infinita di un abisso di dolore senza fine.

Senz’altro, un giorno, dimenticheranno i volti e le parole di chi li ha accompagnati e forse di chi era con loro, ma in futuro, anche tra decenni, ne sono certo, ricorderanno di avere varcato quel cancello e potranno dire: “Io ho visto. Io sono stata qui e non dimenticherò mai questa storia”.

Non dimenticare e fare propria questa storia, significa capire che la consapevolezza di ciò che è stato fa ognuno di noi un ambasciatore di pace, ma non solo: calpestare queste pietre ridà un senso, una dignità e forse un futuro a quella neve composta da ceneri umane oggi finita nell’infinito del tempo.