In trincea per caso: la fine di un emigrante

Ado Clocchiatti, una vita di stenti fra Friuli e Baviera, di cui la "maledetta patria" si ricorda solo quando c’è da mandarlo al fronte dove muore

Migration

C’è chi nell’immane carnaio della Grande Guerra, tema che a Pieve è fra più ricorrenti, segno del peso che ha lasciato nella memoria collettiva di un paese, ci finisce per scelta, come l’interventista repubblicano Eugenio Brilli, il primo dei finalisti, e chi invece ci precipita controvoglia, chiamato ultratrentenne a combattere quelli che gli avevano dato uno straccio di lavoro da fame e anche un sacco di botte. E’ il caso di Ado Clocchiatti, che Brilli lo segue immediatamente nell’ordine alfabetico in cui vengono presentati gli otto diari protagonisti del premio Pieve 2022, strano accostamento di due stati d’animo esattamente opposti, ma anche dimostrazione di come il conflitto, la prima guerra civile europea del ventesimo secolo, sia stato un calderone capace di contenere destini diversissimi, sia pure accomunati dallo stesso tragico finale.

Clocchiatti è il tipico figlio del Nord-est povero di inizio ’900, un altro sud, ben lontano dalla locomotiva produttiva d’Italia che è diventato adesso. Nato nel 1883 in un paese friulano, si rivela alle elementari un alunno brillante, capace di meritarsi un giudizio distinto che lo vorrebbe chiamato a proseguire gli studi. Ma non si può, la famiglia è troppo povera, ha bisogno che anche lui si procacci un lavoro, per sè, per i genitori, per i fratelli. "E’ un ingiustizia - scrive dell’addio alla scuola - non posso, gli risposi (al maestro Ndr), perchè sono troppo povero, piansi dalla rabbia...quando al mondo si è poveri non si è protetti da nessuno".

Ben presto, il quasi fanciullo Ado viene coinvolto nell’emigrazione transfrontaliera verso la non lontana Germania, in Baviera per la precisione. E subito scopre la durezza, la spietatezza del lavoro in una fabbrica di mattoni: "Non avevo mai viaggiato ed ero confuso nel vedere tanta gente, chi cantava, chi bestemmiava, chi piangeva, tutta quella povera gente, si può dire, venduta ai padroni. Mentre quei signori tedeschi ridevano a vedermi un così piccolo (11 anni Ndr) migrante".

Il caso vuole che l’aguzzino di Clocchatti, il suo "caporale", sia proprio un compaesano, un friulano che lo sferza con le maniere forti, tanto per ricordare a tutti di quando gli ultimi d’Europa eravamo noi: "Il padrone cominciava a farci alzare appena il primo raggio dell’alba spuntava sull’orizzonte e fino a che non era notte inoltrata non ci lasciava il lavoro...se ci trovava un secondo, per combinazione, in riposo, allora con un bastone che lui teneva in mano ci dava botte quasi da rovinarci".

Le migrazioni stagionali di Ado continuano per vent’anni, nei quali perde la madre, mentre il padre finisce in manicomio. Si sposa ed ha un figlio, Regolo, finchè nel 1916 quella "maledetta patria" che l’ha dimenticato per tutta una vita di stenti, si ricorda di lui per farne carne da cannone, contro gli austriaci ma anche contro la Germania in cui ha lavorato. "Oggi, 27 luglio, parto anche io sotto le armi, compiendo il mio lavoro verso la famiglia che tanto amo...Voglia Iddio concedermi grazia di ritornare e scrivere altre pagine di vita". L’altra faccia della guera, quella dei contadini del sud e dei miserabili del nord che si ritrovano a combattere un conflitto feroce, del quale nemmeno capiscono le ragioni.

La sorte non esaudirà il desiderio di Clocchiatti e succede proprio quando l’immane macchina bellica è ai suoi ultimi giri. Ado muore un mese prima della vittoria, nemmeno combattendo come Brilli, ma stroncato da una malattia. Non farà in tempo a conoscere e scrivere del suo secondo figlio.