
Il Botero pierfrancescano. La folgorazione degli affreschi: "La Leggenda della Vera Croce dimostra cos’è la vera pittura"
Brilli
La città di Arezzo e la sua luminosa eredità pierfrancescana hanno avuto un’importanza determinante nell’arte di Fernando Botero, così come l’hanno avuta per Balthus, per Casorati e per tanti altri artisti del secolo scorso. Si possono ricordare i rifacimenti delle opere di Piero per mano dell’artista colombiano, come i ritratti dei duchi di Montefeltro, oppure le tante citazioni ricorrenti nelle sue opere sacre e profane.
Ma quello che importa tenere presente, in occasione della morte del pittore, è che Piero ha esercitato una decisiva influenza su Botero nel momento cruciale in cui questi era impegnato nella propria formazione culturale e, in particolare, nella ricerca di un originale linguaggio figurativo. Da un punto di vista storico, è necessario rendersi conto che nelle città dell’America latina e nella stessa Medellín, in Colombia, città in cui Botero era nato nel 1932, gli unici modelli di riferimento per i pittori erano all’epoca le tele d’arte religiosa e le pale d’altare delle chiese. Si trattava di copie e di riproduzioni scadenti di dipinti ispanici ispirati ai dettami della Controriforma e promossi dalla colonizzazione gesuitica dell’America Latina. Era quindi una pittura manieristica e barocca nella quale dominava il culto del sacrificio e della sofferenza, una pittura che aveva il compito di suscitare un’intensa pietà per i martiri e i santi che si erano immolati per il trionfo della fede.
Le loro drammatiche storie venivano tradotte in scene di tortura e di martirio come le crocifissioni, le lapidazioni, le fustigazioni, gli scuoiamenti ed altre indicibili violenze inferte nei corpi di uomini e di donne seminude e discinte. Questa equivoca ostentazione della carne sarebbe ironicamente riemersa nelle tele di Botero nelle quali ricorre come esagerata e irreale enfiagione.
Nell’assenza di validi punti di riferimento, nel 1952 era nato nel pittore il bisogno di lasciare la Colombia per recarsi nel vecchio continente dove acquisire un’effettiva cultura figurativa. Solo nei musei e a contatto con gli artisti internazionali che all’epoca operavano a Parigi, avrebbe potuto perseguire la propria formazione artistica confrontandosi con il passato e con il presente dell’arte occidentale. La prima tappa del viaggio era stata la Spagna con il Museo del Prado e con Goya e Velázquez. Ma una sera a Madrid, nella vetrina di una libreria aveva scorto un volume su Piero della Francesca, probabilmente la monografia di Roberto Longhi. Era stata una vera folgorazione che merita rievocare citando le parole del pittore.
"Allorché posai lo sguardo sul dipinto della copertina, l’incontro della regina di Saba con Salomone, fu come se qualcuno mi avesse finalmente mostrato cosa è la pittura – commenta Botero in un’intervista – c’era tutto quello di cui un pittore può sognare: il colore più fantastico che avessi potuto immaginare e il disegno incredibilmente pieno e generoso".
Dopo avere acquistato il volume, Botero aveva riformulato i propri piani. Aveva fatto una sosta relativamente breve a Parigi, sua meta prefissata, e s’era subito dopo recato in Italia, ad Arezzo, per studiare dal vivo La Leggenda della Vera Croce, il capolavoro del pittore che l’aveva letteralmente stregato.
Piero della Francesca gli ha rivelato la strada maestra per una effettiva maturazione artistica. Attraverso la "generosità" del disegno e il colore "fantastico", gli affreschi di Arezzo lo hanno spinto a recuperare nella sua stessa terra, la Colombia, e nel suo continente, le testimonianze di una civiltà figurativa anteriore alla colonizzazione ispanica, vale a dire le forme archetipe dell’arte precolombiana, un’arte di cui all’epoca non s’era ancora diffuso il culto nel Nuovo e nel Vecchio Mondo. Tramite il pittore di Sansepolcro e le testimonianze precolombiane, Botero ha ora tutti gli strumenti per dotarsi di un’espressione artistica autoctona. Il nome di Piero è diventato per lui una costante presenza quotidiana e come tale ricorre in tutte le numerose interviste che ha rilasciato: "Sul comodino tengo testi che hanno a che fare con l’arte", ha dichiarato in un’interista a “Sur” del 2012, "il diario di Delacroix, le tele di Ingres, il Piero della Francesca di Longhi".
Per un artista come Botero, la pittura pierfrancescana ha avuto anche una funzione che potremmo definire terapeutica. Essa gli ha mostrato la forza che l’impassibilità conferisce anche alle scene più cruente e brutali. Nel coro della chiesa di San Francesco non mancano raffigurazioni cruente con trafitture e decapitazioni. Ma si tratta di gesti senza rabbia, di ferite senza spasimo, di atti sottratti al furore del momento.
Da quelle scene e da quelle figure il pittore colombiano ha appreso l’arte del disincanto, un’arte che non vuole suscitare emozioni, né convincere di alcunché, ma soltanto esibire Veneri corpulente e pingui Madonne nell’indifferenza formale della loro obesità.