
Il 9 giugno 1940 si corre ultima tappa del 28° Giro d’Italia, all’arrivo a Milano è il debuttante Fausto Coppi il vincitore della maglia rosa, che ha sopravanzato il favorito della vigilia e suo “capitano” alla Legnano, Gino Bartali, caduto in una delle prime tappe. Nessuno può sapere che dopo quella tappa per sei anni non si correrà più il Giro d’Italia.
Il giorno dopo, infatti, nel pomeriggio di lunedì 10 giugno, a Roma il capo del governo Benito Mussolini si affaccia al balcone del Palazzo su piazza Venezia gremita di folla e annuncia che l’Italia ha dichiarato guerra alla Gran Bretagna e alla Francia ed entra così nella guerra mondiale, a fianco della Germania. Sono immagini note, grazie ai cinegiornali Luce del tempo che mostrano il pavoneggiarsi del Duce al balcone e l’entusiasmo della folla.
Sono tante le piazze sparse in tutta Italia che ascoltano queste parole. Da tempo il regime fascista ha organizzato un efficiente sistema che collega le periferie del Paese alla Capitale, attraverso le trasmissioni radiofoniche. Sin dalle prime ore della giornata si sa che il Duce avrebbe parlato: si montano dei palchi, dove troneggia la radio, si installano gli altoparlanti, così tutti possono ascoltare l’evento che veniva trasmesso.
Anche a Pieve Santo Stefano, “verso le quattro del pomeriggio nella terrazza del circolo che era sopra al Caffè della Elettra, oggi Bar dello Sport e Piazza della Repubblica due o tre zazzicavano per mettere una o più cassette di legno, detti altoparlanti, perché il Duce doveva parlare per radio alla Nazione (l’Itaglia)”. Sono le parole di un ragazzo di dodici anni di Pieve, Omero Gennaioli, che, in seguito, ha scritto una memoria sul periodo che va dall’entrata in guerra al 25 aprile 1945. Dagli altoparlanti, ancora non ben sintonizzati così che “friggevano”, cominciano a risuonare le canzoni del tempo (“Faccetta nera”, “Giovinezza”) e grida varie che giungono da piazza Venezia; la curiosità del giovane Omero lo spinge verso la piazza di Pieve Santo Stefano: “il Duce aveva già detto le prime parole di fuoco per scatenare uno scroscio di applausi dagli altoparlanti e dal gruppo di fascisti in divisa davanti al caffè. Quasi tutte le altre persone applaudivano anche se con meno fervore dei ragazzi. Io aveva dodici anni, non applaudì perché ero un pò distante, sparpagliato, ma non perché capissi più degli altri. Poi non ero abituato a sbattere una mano contra l’altra, adoperavo spessissimo solo la mano destra per salutare gli insegnanti, il saluto al Duce, e al Re, che erano in terra in ogni luogo. Adoperava la destra per restituire qualche pugno e- per cambiare l’acqua al grillo”.
Anche ad Arezzo “nell’aria c’era una tensione strana”. Le scuole erano state chiuse anticipatamente alla fine di maggio e alle Magistrali, frequentate da Giuseppina Porri, quell’anno “gli scrutini finali avrebbero avuto valore sostitutivo dell’esame di abilitazione”. Giuseppina, abitava in via della Bicchieraia, era un bravissima studentessa, ma in quel giugno del 1940 manifestava qualche disinteresse per il completamento dei suoi studi che le avrebbero consentito di diventare Maestra. Il recente lutto per la perdita dell’amato padre, il proprietario del Forno del Corso, in seguito alle violente percosse subite dai fascisti, assorbiva i suoi pensieri e spegneva ogni slancio. Finalista al Premio Pieve del 2017 dell’Archivio dei Diari con una breve ma intensa memoria (Il conto del pane, Udine, Forum, 2017), Giuseppina ricorda: “la radio trasmetteva in continuazione notizie di guerra, le truppe tedesche avanzavano rapidamente aggirando la linea "Maginot" e dilagavano verso la Francia con impeto inarrestabile, la vittoria era certa, certissima, immancabile”.
La sua memoria termina proprio con quella giornata di 80 or sono: “mentre i giornali e i comunicati radiofonici esaltavano le armate tedesche arrivate a poca distanza da Parigi, Mussolini annunciava al popolo italiano di aver dichiarato guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, tenendo fede al "patto d’acciaio" che ci legava alla Germania nazista. Era il 10 giugno 1940. Piazza Vasari era straripante di gente che occupava anche le vie vicine, fino al Canto de’ Bacci e a Via de’ Pileati come per una grande festa, tutti presenti ad ascoltare la voce inconfondibile di Mussolini che da Roma, via radio, dava l’annuncio che la guerra era iniziata. Eravamo fuori di testa, non erano molte le persone capaci di rendersi conto che il nostro mondo stava franando”.
Gran parte della popolazione è convinta, come indica e promette la propaganda del regime che la guerra sarà breve, importante era, stando a un’affermazione di Mussolini (mai confermata, ovviamente) "avere un migliaio di morti per potersi sedere al tavolo dei vincitori".
Nell’euforia generale che s’impadronisce della piazza del suo paese, Omero, però, si accorge che una donna piange, pensando ai figli soldati. Anche i “reduci del 1518 avevano le lacrime che gli scendevano giù per i solchi della faccia piena di tristezza”, perché loro sapevano cosa era la guerra e “piano, piano si allontanavano dalla piazza senza dare nell’occhio”.
* Direttore scientifico archivio diaristico di Pieve S.Stefano