
Finanziere impegnato enll'inchiesta
Arezzo, 7 luglio 2017 - E’ come coi voti della Dc il 18 aprile 1948: De Gasperi pensava che pioveva, non che grandinasse. E lo stesso succede per le dimensioni di Fort Knox, il più grande contrabbando d’oro con la Svizzera mai scoperto in Italia, che si moltiplica per dieci: da 180 milioni (la pioggia) a 1,4 miliardi (la grandine).
Come a dire che nel periodo in cui ha funzionato il canale fra il capo dei capi Petrit Kamata(mprenditore elvetico di origini albanesi) e i suoi referenti italiani, non solo ad Arezzo ma anche in altri poli del metallo prezioso, come quello campano di Marcianise, di là è passato un valore equivalente alla metà di quanto questa provincia esportasse all’epoca in lingotti. Il calcolo non è fatto a caso e si basa anzi sulle risultanze delle rogatorie, riportate adesso dal Sole 24 Ore, che a suo tempo il Pm Marco Dioni, titolare a Palazzo di giustizia della madre di tutte le inchieste, chiese appunto oltre il confine di Chiasso agli inquirenti svizzeri.
Bene, da lì è risultato che il totale dell’oro acquistato da Kamata in Italia nel corso dei suoi affari è di 37 tonnellate, per un controvalore appunto che sfiora il miliardo e mezzo. Si può presumere, dunque, che a tanto ammontassero gli affari imbastiti con i suoi contatti italiani dal capo dei capi. Anche se, è bene essere chiari, nella Confederazione Elvetica, dove non esiste il divieto di utilizzo dei contanti, non tutto viene considerato illecito.
Infattii,i quantitativi che Dioni contesta agli imputati nell’udienza preliminare ancora in corso e che riprenderà a settembre, sono molto più bassi: i 177 milioni che erano stati la stima iniziale fatta dalla Guardia di Finanza (per un quantitativo di 4 tonnellate d’oro puro) e poi pubblicizzata quando il caso esplose, nel novembre 2012, con decine e decine di perquisizioni e di orafi (soprattutto aretini) indagati.
Che succede dunque? Che gli inquirenti hanno messo le mani solo sull’ultima parte del colossale contrabbando, quella che va dall’estate 2011, quando cominciano le indagini, fino all’ottobre 2012 del blitz nella villa Fort Knox di San Giovanni dei Mori (comune di Marciano), controllata da Michele Ascione, referente aretino di Kamata per tramite di una società maltese. Inutile dire, a proposito, che la villa, tutt’altro che una fortezza inespugnabile, piuttosto un brutto fabbricato perso in mezzo alla campagna e rimasto in parte al rustico, è uno dei beni che saranno probabilmente confiscati a suggello del processo, se ovviamente il Gup Marco Cecchi accetterà il patteggiamento a due anni concordato fra la procura e la difesa di Ascione.
Ma per tornare a noi, il contrabbando era già in piedi da mesi, forse da anni, quando un napoletano si fece prendere in castagna dalla Polstrada di Battifolle in Autosole, indirizzando la Finanza sulle tracce di quella che sarebbe diventata poi l’operazione Fort Knox. Logico dunque che le dimensioni del traffico siano molto maggiori di quanto viene contestato ai 67 imputati rimasti.
Quella, per usare una metafora, è la punta dell’iceberg, sotto c’è la montagna di ghiaccio da 1,4 miliardi. Un’enormità. Il periodo, sarà bene ricordarlo, è quello degli anni in cui i lingotti erano uno dei beni rifugio più richiesti (in piena tempesta recessiva) nelle banche svizzere. Fu l’epoca in cui anche l’export lecito di oro puro, tramite le grandi aziende aretine specializzate, dalla Chimet alla Tca e alla Italpreziosi, giunse a superare quello dei gioielli lavorati. E’ questo il quadro in cui nasce il traffico clandestino di Fort Knox. Le conseguenze, almeno quelle giudiziarie, durano ancora adesso.