
Svolta per Fort Knox
Arezzo, 9 ottobre 2019 - Chissà quanto sarebbe andato avanti il gigantesco contrabbando con la Svizzera passato alla cronaca col nome di Fort Knox se non fosse stata per un’assoluta casualità. Il classico colpo di fortuna che ha rievocato ieri in aula il luogotenente della Finanza Luigi Calvanelli ricostruendo le origini delle indagini, in un’udienza che rivoluziona completamente quanto resta del maxi-processo dopo che la gran parte degli orafi coinvolti, in particolare tutti gli aretini, hanno patteggiato.
Non più dunque una pausa di un anno, fino al novembre 2020, ma un calendario fitto di appuntamenti fin da subito. Ecco allora che torna subito alla ribalta il primo atto dell’inchiesta, nel luglio 2011. E’ Federico Pesce, uno degli imprenditori napoletani protagonisti del traffico, che viene fermato in macchina nel tratto aretino dell’Autosole. Ha appena effettuato una consegna e torna verso casa con il corrispettivo in denaro, qualcosa come un milione e centomila euro in banconote da cinquecento.
Lui dinanzi agli agenti della Polstrada si fa cogliere dal panico e compie una mossa falsa: vi lascio tutti i soldi, dice, ma fatemi andar via. Per questo verrà condannato per istigazione alla corruzione, ma soprattutto dà il là al lavoro investigativo. Perchè la Polstrada passa la pratica alla Finanza e quest’ultima comincia a tener d’occhio i Pesce, sia Federico che il fratello Raffaele.
Ci vuole poco a capire che i fratelli sono una leva per entrare dentro i meccanismi del contrabbando, sia per quanto fanno in proprio che per i contatti che mantengono. In un primo periodo i Pesce continuano a fare in proprio la spola con Valenza, l’altra capitale dell’oro in cui hanno i loro referenti. Poi, quando capiscono che il gioco si fa troppo pericoloso, si affidano al cognato Edoardo Chianese che inizia a fare il pendolare.
La mattina prende da Napoli il Freccia Rossa per Milano con un trolley carico d’oro. All’arrivo alla stazione centrale c’è un taxi che lo aspetta per condurlo fino a Valenza. Lì non c’è neppure bisogno di spegnere il motore, perchè ad attendere ci sono i riferimenti del traffico: pochi secondi, il tempo di scambiare il trolley dell’oro con una valigia piena di contanti, 600 mila euro per volta.
Nel contempo, l’intercettazione dei telefoni dei Pesce porta la Finanza sulle tracce a Napoli della famiglia Borrelli e dell’Italiana preziosi di cui è titolare. Altre intercettazioni e si arriva al capo dei capi, Petrit Kamata, imprenditore svizzero di origini albanesi già condannato a pagare 200 milioni di euro. E’ uno dei Borrelli che chiama Milano e dice che ha bisogno di parlare con «lui».
Non c’è neppure bisogno di specificare, tanto è chiaro a tutti il nome del capo. Ad Arezzo, invece, i controlli sui telefoni dei Pesce mettono la Finanza sulla pista dell’orafo Stefano Bianchi, che a sua volta è uno dei fornitori degli allora referenti locali di Kamata, i fratelli Tremonte. Con le verifiche a loro carico si arriva agli altri orafi coinvolti nel traffico. E’ l’inizio della fine.