Filtra la memoria tra gli oggetti di una vita

Enrica racconta ai nipoti "le cose che non ci sono più": e attraverso quelle le radici di una famiglia, l’amore, i codici di una generazione

di Gloria Peruzzi

Cosa rimane di noi quando non potremo più raccontare quegli aneddoti, sempre uguali ma sempre divertenti, quelle marachelle che fanno parte della storia di famiglia, racconti che si tramandano di generazione in generazione e si saldano nella memoria come un albero genealogico di ricordi ed emozioni. Cosa resta della nostra storia quando la morte ci porterà via? Quando si comincia a scrivere di sé stessi, lo si fa spesso per cercare sollievo nelle parole, per sfogare gioia, rabbia, dolore. O perché la nostra vita sopravviva in chi potrà leggerci. Enrica De Palma, vicina agli 80 anni, ha sentito il bisogno di scrivere "Le cose che non ci sono più" per raccontare ai nipotini una grande saga familiare.

Una memoria in cui ripercorre la sua vita dal 1928, l’anno in cui nasce a Bari, fino al 1999. Settant’anni scritti su carta per ricordare loro quanto drammatica è la guerra, quanto difficile per una donna affermarsi nel lavoro, i pregiudizi da combattere e le rinunce per non sacrificare la famiglia per la carriera. Quanto bello è innamorarsi e quanto sia doloroso perdere l’amore della vita troppo presto a causa della malattia. Ma, Enrica De Palma comincia a scrivere raccontando la felicità. Quella vissuta durante l’infanzia a casa, nella palazzina tra Bari vecchia e nuova, e a ‘Villa Micòl’, la casa che nonno Corrado aveva regalato alla nonna dandole il suo nome.

Qui, nelle campagne di Molfetta, la famiglia, per generazioni, si ritrova al completo: "La dispensa era in uno scantinato a cui si accedeva mediante una scala di legno nascosta da una botola. Di laggiù venivano portate marmellate, conserve, bottiglie di olio e di vino, interi prosciutti. Ci veniva proibito di scendere, perché la scala era giudicata pericolosa. Mi avevano però detto che zia Olga da ragazzina vi scendeva di nascosto e svuotava i barattoli. Un giorno, sorpresa dalla cuoca, le si era precipitata ai piedi: - Il cuor ti do, zitta però! Frase entrata nel lessico familiare e pronunciata ogni volta che qualcuno di noi veniva scoperto in una qualche marachella".

Scampoli di vita, fotogrammi in bianco e nero, scorrono chiari, profumano delle gioie dell’infanzia, rammentano gli affetti come pure le delusioni e il dolore dei giorni della Guerra. I suoi genitori costretti a trasferirsi, a causa del conflitto, prima a Milano, poi Torino e Firenze: "Arrivai fin sotto le Logge del Porcellino e cominciai a vedere le macerie. In quel momento udii una intimazione di alt forte e decisa. Mi girai: un soldato tedesco stava puntando il mitra verso di me. Mai avrei creduto di poter correre così velocemente!". Finita la guerra, Enrica può pensare al suo futuro. Si laurea all’Università di Firenze, con Gaetano Salvemini: "Era cugino del nonno; aveva avuto il coraggio di andare in esilio pur di non iscriversi al partito fascista, come aveva fatto la maggior parte dei docenti universitari". Diventerà archivista di Stato, grazie agli studi fatti nell’Istituto Croce di Napoli nel corso di Federico Chabod, frequentato con Renzo De Felice e Piero Melograni.

E’ lì che incontra l’amore: "Ci fermammo sul lungomare, appoggiati alla spalletta di pietra, una luna fredda nel cielo. – Guardala alla rovescia, poggia la testa sul muretto! È più bella, sembra un’altra luna. Lo feci e lui mi baciò. Proseguimmo abbracciati e vedemmo l’alba insieme". Angelo è avvocato, lo sposerà e avranno una bambina. A Roma Enrica De Palma vivrà fino alla morte nel 2019.