SALVATORE
Cronaca

Castelnuovo 1921, prima fiammata di violenza La reazione a spedizione fascista: due morti

Gigantesco equivoco: a San Giovanni e alle miniere si crede ad attacco contro la sinistra locale. Un capostazione e un ingegnere le vittime

Salvatore

Mannino

L’Italia del marzo 1921 è una sinistra Terra dei Fuochi in cui divampano incendi da ogni lato: brucia Firenze, dove il 27 febbraio è stato ucciso dai fascisti il segretario comunista Spartaco Lavagnini, cortonese di origine, nel pieno di una sommossa che sconvolge la città, brucia Empoli, dove il primo marzo una carovana di camion di marinai in viaggio da Livorno viene assalita da militanti di sinistra che li scambiano per squadristi (nove morti), brucia l’Emilia ormai ex rossa, brucia Milano, dove il 23 marzo un attentato rimasto sempre misterioso, un po’ come piazza Fontana, devasta il teatro Diana, con 21 vittime, molte più di quelle della strage del ’69, punto culminante della Strategia della tensione. E’ lo stesso giorno, il 23 marzo, in cui anche la relativa calma che aveva caratterizzato fino ad allora l’Aretino viene spazzata via da una fiammata di violenza inaudita, passata alla storia, giusto cent’anni fa, come i Fatti di Castelnuovo.

Da settimane, se non da mesi, il Valdarno, la parte più evoluta, anche economicamente, della provincia, è in piena tempesta. Lì, a novembre, è nato il primo fascio della provincia, "notoriamente favorito da quella sottosezione dell’associazione agraria", come scrive il prefetto Giannoni, nel pieno dello sciopero dei contadini bianchi. Lì, a partire da febbraio, danno sinistri segni di scricchiolii le due maggiori potenze industriali della vallata e dell’Aretino: l’Ilva, ossia la Ferriera di San Giovanni, annuncia di non essere in grado di pagare gli stipendi del mese, il sogno del trust dell’acciaio, che aveva avuto per protagonista Arturo Luzzatto, deputato del collegio di Montevarchi e vero padrone del conglomerato industrial-minerario, viene estromesso dalle banche creditrici e dichiarato decaduto da Montecitorio. Anche nelle miniere il clima è teso, si parla di riduzione del lavoro, si parla di licenziamenti di massa.

E’ in questo clima che un gigantesco equivoco si trasforma in un’immane tragedia che spazza via il movimento operaio locale. La mattina del 23 marzo, dunque, parte da Firenze una spedizione squadrista diretta a portare soccorso ai camerati di Perugia. Allora non c’era l’autostrada, l’unica via era la vecchia statale 69. Le vedette rosse piazzate a Incisa avvertono i compagni di San Giovanni: stanno arrivando i fascisti. Nessuno immagina che siano diretti altrove, tutti i militanti di sinistra pensano a un attacco contro di loro.

In fretta e furia si allestisce un posto di blocco armato nei pressi della Ferriera, dalle parti di Ponte alle Forche. Quando arriva il primo camion degli squadristi riesce a passare indenne fra le fucilate, così come l’auto condotta da Bruno Frullini, uno dei capi del fascismo fiorentino, su cui viaggia il direttorio del fascio perugino. La seconda macchina, invece, guidata dal marchese Della Gherardesca, con il segretario regionale fascista Dino Perrone Compagni e un altro pezzo grosso dello squadrismo, Manfredo Chiostri, che a maggio sarà eletto deputato, viene investita in pieno dal fuoco e presa d’assalto dalla folla radunata in centro, che costringe i fascisti a rifugiarsi nella caserma dei carabinieri. Una pallottola vagante raggiunge il capostazione Salvagno, che morirà dopo qualche ora.

Perrone Compagni e gli altri restano bloccati fino a sera, quando da Arezzo arrivano i rinforzi di polizia guidati dal vicequestore Vincenzo Gueli e da Firenze altre squadre nere. I fascisti possono finalmente riversarsi per strada e darsi alla devastazione: nella notte bruciano la Camera del lavoro e la corale Bellini, mentre un camion di squadristi si dirige verso Castelnuovo, la roccaforte dei minatori anarchici. Si trovano davanti un altro tragico spettacolo di morte.

Cosa è successo? Lo stesso allarme che ha raggiunto San Giovanni è arrivato anche alle miniere. E anche lì si crede a una spedizione, fomentata dalla proprietà, di cui i minatori siano il bersaglio. La folla invade minacciosa la palazzina della direzione e dà fuoco agli uffici, mentre il direttore, l’ingegner Dario Raffo, viene ferito da un colpo di fucile. Lui chiede di spegnere le fiamme prima che danneggino gli impianti. "Quando bruciano le nostre coooperative, non vi preoccupate tanto", è la risposta.

Si tratta l’evacuazione dei feriti, i minatori sembrano convinti, ma quando Raffo sta raggiungendo la sua auto per andare in ospedale, prevale il caos: qualcuno spara, resta a terra ucciso un altro ingegnere, Agostino Longhi, direttore di una miniera in Maremma, ospite a Castelnuovo. Ci sono anche dei feriti.

I fascisti torneranno in massa la mattina dopo, bruciano circolo socialista e Casa del Popolo, scatenando la caccia ai minatori, che nel frattempo sono scappati nei boschi. Alcuni vengono presi subito, altri, i capi, come Attilio Sassi, detto "Bestione", e Priamo Bigiandi, deputato Pci del seondo dopoguerra, restano latitanti per settimane. Al processo del 1923, l’accusa sosterrà la tesi dell’attentato preordinato, arriveranno pene fino a trent’anni.

Quella stessa mattina del 24 a San Giovanni, gli squadristi lanciano il bando: "Esporre entro un’ora il tricolore. Dopo la vigliacca aggressione subita, avvisiamo che i capi comunisti saranno soppressi, che si rintraccino pure fra un anno, visto che vigliaccamente sono fuggiti". Il grottesco è che non si trova neppure un tipografo per stampare il manifesto: sono stati tutti arrestati. I carabinieri ne devono liberare uno perchè provveda al lavoro. Comunque sia, la città si riempie di tricolore ed è la fine della sinistra locale, socialista o comunista che fosse. La Ferriera viene chiusa come le miniere. Sarà il segretario del fascio di Arezzo, il populista Alfredo Frilli, a trattare un paio di mesi dopo le condizioni della riapertura. Davvero il tramonto di un’epoca.