
SilvioTrotta e Riccardo Marasco
Arezzo, 21 dicembre 2015 - Quando muore un cantastorie, quando muore il più grande dei cantastorie toscani che ne è delle sue storie? Gli restituiscono il favore: da ora in poi saranno loro a raccontare lui.
Lui, Riccardo Marasco, l'uomo dell'Alluvione e di Teresina, il graffiante cantante di una Firenze che forse non c'è più, la raffinatezza della ricerca musicale sotto la maschera di un'apparente risata grossa. E' morto un paio di giorni fa, spezzato da una malattia che non gli aveva tolto il sorriso e la voglia di cantare fino all'ultimo. E ad Arezzo lascia una traccia profonda.
Una è quella del Circolo Aurora, che lo ricorda commosso, perché qui era venuto tante e tante volte. L'ultima, ricorda Francesco Maria Rossi, per dare voce a chi non l'aveva più, quel Carlo Monni che un po' gli somigliava nello spirito e che lui aveva ricordato in piazza Sant'Agostino così come si ricordano le persone serie, senza lacrime e senza espressioni di circostanza.
Ma la traccia più profonda è quella impressa in tanti dischi, usciti dal 1997 a oggi: e nei quali i suoi "schiaffi" in musica si vanno ad incrociare con il talento di un musicista tutto aretino, anche se in realtà nato a Capracotta: Silvio Trotta.
Si erano conosciuti nel 1995: in dieci anni hanno fatto oltre cinquecento concerti insieme. Sapete quanti sono 500 concerti? Cinquecento, è chiaro, ma sono soprattutto quelli che trasformano un tandem professionale ormai rodatissimo in una coppia di amici.
Amici uniti da una predilezione comune: quella per la musica. E quella in particolare pe ri suoi mille srumenti. Ricordate Riccardo Marasco con la sua chitarra a forma di lira? La portava (quanto fa fatica declinare i verbi al passato in certe situazioni...) come un trofeo e non capivi mai come diavolo facesse a suonarla in un corpo a corpo complicato perfino sul piano fisico. Ma in realtà Marasco spaziava tra tanti strumenti diversi, tra tante sonorità.
E in questo aveva trovato in Trotta il suo partner ideale. Uno che suona la chitarra e il basso, il mandolino e la chitarra battente e poi tutta la famiglia dei plettri italiani. Uno come lui capace di trarre musica da qualunque cosa faccia "rumore": da educatore (perché oltre a suonare con Marasco da anni fa corsi per i ragazzi, compresi quelli più difficili) usando scatole di biscotti, bastoni della pioggia, forchette e coltelli.
Nell'uomo erede di Edoardo Spadaro aveva trovato un interfaccia quasi naturale: lui in un angolo, a stendergli un tappeto rosso di note a sorpresa, e Marasco al centro, con la sua chitarra troppo grande per essere vera e le sue strofe di grana apparentemente grossa e invece raffinatissime.
Hanno suonato dalle Logge dei Lanzi in piazza dellaSignora alle rive dell'Arno, dalla Morgan Library di New York a Bruxelles. Fino ad Arezzo. Arezzo dove Trotta lo chiamava spesso, da buon direttore artistico e inventore di Pifferi, muse e zampogne, un festiuval di musica popolare che sotto traccia non perde un'edizione nel mese di Natale ormai da tanti anni. E lo chiamava nel cartellone Aurora d'estate.
Serenate, stornelli, rispetti, storie e ballate, perfino canti risorgimenttali. Forse il loro disco più bello è stato "La mia Toscana", l'album, raccontava Marasco, "nato per evitare che venga murata la finestra sulla mia Toscana". Anche lui avvertiva che quella finestra si stava chiudendo, anche lui avvertiva di cantare una Toscana quasi scomparsa, o se preferite sparita, un po' come certe stampe della vecchia Roma. E insieme a Trotta aveva fatto in modo di tenerla viva, l'avevano "defibrillata" insieme, uno da protagonista e l'altro al suo fianco, prezioso e spesso invisibile.
La vita, anzi la morte, ha spezzato questo duo ma non ferma la amusica. Non ferma la musica di Trotta, che con Giorgio Albiani e i Viulan ad esempio continuerà a inanellare tante storie, e così con i Musicanti del piccolo borgo. E non ferma la musica di Marasco, le cui storie da ora in poi racconteranno lui: forse, chissà, anche facendosi aiutare da Trotta, dai suoi mandolini, dalle sue chitarre battenti. E da chi ne aveva intercettato lo spirito, colto e sgangherato, lirico e a tratti quasi sboccato, per farne una miscela irripetibile. Anzi sì, forse per sempre.
alberto pierini