Quei figli che uccidono i genitori

La psichiatra Dell’Osso (Aoup): «Mai semplificare. Dietro l’etichetta della ‘follia omicida’ si celano spesso motivazioni e disagi molto più profondi»

La professoressa Liliana Dell’sso, direttore dell’U.O. di Psichiatria I dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana

La professoressa Liliana Dell’sso, direttore dell’U.O. di Psichiatria I dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana

PISA 15 gennaio 2017 - Da Pietro Maso a Ferdinando Carretta, dai fidanzatini di Novi Ligure, Erika ed Omar, ai recenti casi di Ferrara e di Volterra, nella cronaca italiana ricorrono, con una certa regolarità, gli omicidi familiari. Non conosciamo i contorni precisi dei casi recenti, sui quali pertanto non è corretto esprimersi, ma conosciamo la verità processuale degli altri.

Quello che emerge è che non sempre la motivazione del delitto efferato è psicopatologica, anche se, quasi invariabilmente, i difensori legali di questi soggetti fanno ricorso a valutazioni psichiatriche sospettando, se non auspicando, una qualche forma di infermità mentale. Anche i cronisti utilizzando espressioni come «dramma della follia» o «follia omicida» o raptus, spesso contribuiscono ad apporre una rassicurante etichetta di disturbo mentale a questi episodi. In realtà, dietro questi omicidi familiari si nasconde una gamma molto ampia di condizioni, che comprende dal disturbo mentale grave (nel caso di Carretta, per esempio, tutti i periti riconobbero una schizofrenia paranoide), a gravi disturbi di personalità (come il disturbo narcisistico di personalità di Pietro Maso), a semplici tratti personologici abnormi, in soggetti per altri versi «normali».

Il tutto, poi, frammisto ad altri disturbi come l’abuso di sostanze, che spesso fa da detonatore, e i motivi patrimoniali. Separando l’ambito forense, che deve evidenziare una patologia conclamata, clinicamente rilevante, in grado di scemare o abolire totalmente la capacità di intendere e volere, dal piano clinico, che impone una valutazione più sottile, multidimensionale, che tenga cioè conto sia dell’assetto psichico del soggetto che commette un crimine sia del mileu ambientale, culturale e sociale in cui certi delitti maturano. Mi spiego meglio: in alcuni, famigerati, casi che ho citato sopra, non è stata accertata alcuna infermità mentale dei rei, ritenuti pertanto capaci di intendere e volere,quindi imputabili, senza attenuazione della pena, che è stata scontata in un comune carcere. Sono spesso persone che hanno un marcato deficit relazionale, della risonanza affettiva e dell’empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderne i sentimenti e di provarne a propria volta. Sono molto frequenti i tratti narcisistici, quelli per cui il soggetto ha una certa immagine di sé, che nessuno può permettersi di scalfire, e a cui tutto è dovuto.

Molti casi esplodono a seguito di un semplice diniego dei genitori o di banali rimproveri per le scarse performance scolastiche, quindi a seguito di un giudizio che viene misinterpretato rispetto al suo intento educativo o che, comunque, non viene tollerato. Ricordo un caso in cui i genitori furono uccisi perché il figlio non voleva che scoprissero che non aveva mai sostenuto gli esami che aveva dichiarato di aver superato all’università. Al di là degli aspetti psichiatrici, è evidente che, su un piano sociologico e pedagogico, in questi nuclei famigliari manca la capacità di comunicazione efficace oppure la comunicazione è completamente assente: in questo risiede la «responsabilità» familiare e sociale di questi agiti. E poi l’immaturità di fondo, l’incapacità di provare rimorso: premeditazioni lunghe ma strampalate e superficiali, motivazioni futili, farsi un panino o giocare ai videogiochi dopo il delitto, in attesa di dare l’allarme.