Li abbiamo chiamati eroi ed eroine, quando la pandemia ci obbligava in casa e loro erano in prima linea negli ospedali. Sono stati, e sono, eroi ed eroine, ma, soprattutto, professionisti e professioniste, che, come Francesca Beccaria, infermiera all’ospedale Versilia, operano con empatia e competenza, nonostante le difficoltà fisiche e psicologiche che il lavoro comporta.
Francesca, in che reparto lavora?
"In medicina generale media intensità 1, composta da medicina interna, geriatria e pneumologia. Al momento siamo 28, di cui 4 uomini, più la caposala. Su 46 posti letto ciascuno si occupa di pazienti che vanno dagli 8 ai 12, con la responsabilità di gestire l’assistenza infermieristica, la cura del paziente, la stabilità dei suoi parametri vitali, la terapia e la prevenzione di lesioni e l’attuazione delle prestazioni terapeutiche prescritte dal medico".
Perché la decisione di avviarsi a questa professione?
"Ho sempre cercato di entrare in sintonia con gli altri e questo lavoro è la cosa che più me lo permette, perché sono a contatto con le persone e con quello che è il loro vissuto. Inoltre, la medicina mi è sempre piaciuta".
Perché non fare il medico?
"Il medico deve avere una freddezza e una capacità tale da prendere decisioni che possono comportare la vita o la morte delle persone, che io a 18 anni non avevo la coscienza di poter sviluppare. E allora ho deciso di fare l’infermiera e poi ho capito, lavorando, che anche dalle mie decisioni può dipendere la vita o la morte di una persona".
Come mai nel campo infermieristico ci sono più donne?
"Per un fatto culturale. Se torniamo indietro nel tempo, si occupavano di assistenza suore o missionarie. Sempre e solo donne. Nell’immaginario collettivo è la donna che si prende cura degli altri. Da infermiera, poi, vedo tantissimo che, per quanto ci siano sempre più uomini che diventano principali assistenti di una persona malata, sono sempre le donne che hanno in mano l’assistenza della famiglia o dei figli".
Quanto è stressante, fisicamente e psicologicamente, il suo lavoro?
"Lavorare di notte e stare, magari, 10 ore di fila con il cervello attivo e concentrato, ti scombina l’orologio biologico. Questo non ti impedisce di avere una vita, anche se ci sono persone che non riescono a farlo per tutta la vita. A volte non sai più che giorno è".
E lei come fa?
"Io ho un grande spirito di adattamento (ride). Riesco ad attivarmi e disattivarmi in maniera on/off".
Rischia violenze?
"In medicina è più difficile, perché si cerca sempre di risolvere le situazioni prima. Ma aggressioni verbali ce ne sono tantissime".
Da parte di familiari o pazienti?
"Anche dai pazienti, che però molte volte sono affetti da deliri e puoi aspettartelo, anche se non tutto è consentito. I familiari invece sfogano verbalmente su di noi i loro problemi e le loro frustrazioni. Molte volte succede perché siamo le persone che vedono di più in reparto e che sono sempre a loro disposizione. Chi, invece, si trova nell’ambito dell’emergenza ed urgenza si trova di fronte al rischio di aggressione anche fisica".
La parte più bella del suo lavoro?
"Vedere la progressione della guarigione di una persona. Il fatto che grazie a ciò che io faccio, guarisce e torna a casa. Il fatto che per come mi approccio, per il tempo che passano in reparto, la loro esperienza cambia completamente".
C’è qualche paziente che le è rimasto impresso?
"Ricordo di un signore che avevo conosciuto quando lavoravo alla Croce Verde di Forte, dove veniva a fare prelievi. È stato ricoverato nel mio reparto e a distanza di due anni mi ha riconosciuto. A chi hai assistito talvolta lasci un’impronta più forte di quello che tu pensi e tutte le volte che scopro che questa cosa è successa, per me è motivo di orgoglio".