Il mistero Pecorelli, l’amico del “nero” e le armi dimenticate

Carminati fermato con Magnetta alla frontiera. «Lui custodiva la pistola del delitto»

Processo per l’omicidio di Mino Pecorelli

Processo per l’omicidio di Mino Pecorelli

Perugia, 20 marzo 2019 - E’ una strada tortuosa che si infila nelle vicende giudiziarie dei militanti neri degli anni ’80 tra silenzi e dimenticanze quella che, a distanza di 40 anni, potrebbe condurre gli investigatori della Digos a rintracciare l’arma del delitto del giornalista Mino Pecorelli e a riscrivere l’incipit di uno dei misteri italiani ancora irrisolti. In questa direzione vanno le nuove indagini della procura di Roma, dopo l’istanza di riapertura avanzata da Rosina Pecorelli, difesa dall’avvocato Valter Biscotti, la sorella del giornalista scomodo, ucciso il 20 marzo del 1979 in via Orazio, sotto la redazione del suo «Op» con quattro colpi di pistola.

Ma occorre fare un salto all’indietro per riannodare un filo “interrotto”.

E’ il 20 aprile 1981 quando Domenico Magnetta, militante di Avanguardia nazionale, viene bloccato al valico con la Svizzera insieme a Massimo Carminati. Carminati all’epoca è un banditello affiliato ai Nar, ritenuto vicino a quelli della Banda della Magliana. Il «nero» della trasposizione letteraria in Romanzo criminale. Non ancora il “Quarto re di Roma” di Mafia capitale (per cui sta scontando 14 anni di carcere). E nessuno indaga su di lui per il delitto di Mino Pecorelli.

Alla frontiera Carminati, insieme a Magnetta, ingaggia un conflitto a fuoco con la polizia, restando ferito all’occhio (di lì il soprannome de “Il guercio”).

Solo undici anni dopo (il 4 marzo del ’92) Vincenzo Vinciguerra – ex membro dei movimenti neo-fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, ora in cella dove sta scontando l’ergastolo per la strage di Peteano – spiega al giudice istruttore Carlo Mastelloni di aver saputo da «Adriano Tilgher che la pistola utilizzata per uccidere Mino Pecorelli, subito dopo il fatto venne affidata a Domenico Magnetta». Che addirittura sarebbe pronto a parlare con gli investigatori perché si sente abbandonato in cella dagli amici militanti. Magnetta all’epoca nega «non ho mai posseduto un’arma che sapevo essere stata utilizzata per il delitto Pecorelli» e poco tempo dopo consegna un arsenale di armi alla polizia, per il tramite di un sacerdote. Tra quel tesoretto c’è anche una 7.65 che il colonnello Giovanni Lombardi dei Ris – per conto del pm di Roma Giovanni Salvi che conduce le indagini su Pecorelli – compara con i bossoli repertati sul luogo del delitto a Roma. L’esito è negativo. La pista viene accantonata. E l’arma usata per uccidere il giornalista si cerca altrove: nel deposito di armi della Banda della Magliana al Ministero della sanità. Perché la tesi investigativa dell’epoca è quella che la Banda della Magliana abbia fornito supporto alla mafia per fare un favore alla politica e eliminare un personaggio scomodo. Mandanti vengono ritenuti Carminati e un soldato di mafia, messo a disposizione dalla Decina romana.

Eppure dopo dieci anni di processo perugino, il caso-Pecorelli finisce in una strada senza uscita. Nel 2003 la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza della Corte d’assise d’appello di Perugia che l’anno prima (ribaltando la sentenza di primo grado) aveva condannato a 24 anni di carcere Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti (confermando invece l’assoluzione per Claudio Vitalone, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati). E il delitto Pecorelli resta un mistero, pieno di punti interrogativi.

Ciò che all'epoca nessuno sa – e nemmeno gli inquirenti né romani, né perugini hanno mai saputo – è che nel 1995 mentre gli allori sostituti procuratori di Perugia Fausto Cardella e Alessandro Cannevale facevano arrestare proprio l’amico di Magnetta, Carminati, la squadra mobile di Milano sequestrava a Magnetta una Santa Barbara, nascosta in auto, tra cui una Beretta 7,65 con matricola parzialmente punzonata, una canna di pistola dello stesso calibro e 4 silenziatori artigianli. Magnetta sarà arrestato e condannato a 3 anni e 10 mesi nel silenzio più totale. Carminati sarà giudicato e assolto.

Adesso, a 40 anni dal delitto Pecorelli, la cui vicenda giudiziaria ha lambito personaggi politici, malavitosi, apparati deviati dei servizi segreti e la mafia, la procura di Roma ha riaperto l’indagine sulla base dell’istanza presentata dalla sorella Rosina Pecorelli che ha allegato proprio le dichiarazioni di Vinciguerra e l’inchiesta giornalista di Raffaella Fanelli che ha ipotizzato un collegamento tra le armi sequestrate a Monza e l’omicidio di via Orazio.

La delega è stata affidata alla Digos di Roma. Ma solo comparando le armi sequestrate allora a Magnetta (nella sentenza di condanna non si dà atto della distruzione dei reperti che quindi potrebbero ancora essere nel deposito dei corpi di reato) e bossoli e proiettili del processo per l’omicidio Pecorelli si potrà capire se la pista Magnetta allora accantonata poteva portare a individuare l’arma del delitto e riscrivere un pezzo importante di storia giudiziaria «dimenticata». I verbali che hanno dato l’input alla riapertura delle indagini compaiono anche nella ristampa de «Il Divo e il giornalista», scritto dal giornalista Alvaro Fiorucci insieme al cancelliere Raffaele Guadagno e nel libro dell’avvocato Biscotti.