"I comuni più piccoli dell’Umbria mostrano una dinamica che li sta portando allo spopolamento: un quarto delle amministrazioni del Cuore Verde oggi ha meno di 1.500 residenti e la metà meno di 2.800". A sancirlo è l’approfondimento che ha effettuato Giuseppe Croce, dell’Università La Sapienza di Roma, secondo cui "in aree già a bassissima densità di popolazione, le tendenze in atto comportano condizioni di difficile sostenibilità anche dei servizi di base. Al di là delle zone che potranno conservare insediamenti industriali vitali o attività agricole, per il resto di queste aree lo scenario che si ottiene estrapolando ai prossimi anni le tendenze già in atto è quello dell’abbandono". Una fotografia che parte proprio dagli ultimi dati Istat sulla popolazione, che raccontano come negli ultimi sette anni l’Italia ha perso il 2,2% dei residenti, mentre il calo per l’Umbria è arrivato al 3,4%, con punte di oltre 8 punti nei comuni piccoli.
"Lo spopolamento delle aree rurali è un fenomeno atteso e facilmente spiegabile – afferma Croce –. Esso non è che la coda del processo epocale di sostituzione dell’economia agricola con una terziaria, che non ha necessità di essere dispersa nel territorio e tende sempre più a concentrarsi nelle aree urbane. Il venir meno in Umbria di città medie in grado di svolgere questa funzione rappresenta una grave debolezza per le prospettive economiche".
Esistono delle opportunità per i piccoli comuni magari limitate ma realistiche, per evitare un destino di abbandono? "Se ne esistono – continua il docente –, vanno cercate tra le pieghe delle grandi trasformazioni sociali in atto, come quelle di una variegata “popolazione instabile” attratta per turismo in senso lato, per il tempo libero o per il lavoro da remoto. Tuttavia, questo scenario di resilienza e trasformazione non si realizzerà in modo spontaneo, ma richiede investimenti pubblici e privati e strategie condivise. I 92 comuni umbri – sostiene Croce – potrebbero intraprendere la strada delle unioni per convergere verso un’aggregazione territoriale che ricalchi i 14 sistemi locali del lavoro in cui si articola il territorio regionale. Quindi non solo unioni “orizzontali” formate solo da comuni piccoli e piccolissimi ma anche e soprattutto unioni “verticali” che aggregano comuni più piccoli intorno ai centri urbani di maggiore dimensione".
"Due ostacoli principali, però, si intravedono lungo questa strada – conclude –. Il primo, di ordine culturale, è il campanilismo sterile che, c’è da augurarsi, sarà meno forte tra le nuove generazioni. Il secondo, di ordine politico, riguarda la disponibilità effettiva della Regione a sostenere e accompagnare, come previsto dalle sue competenze, questo processo con gli strumenti e le risorse necessari".