GIOVANNI LANDI
Cronaca

"Canne palustri, la nostra arte ormai è a rischio"

Orlando Zoppitelli, artigiano da due generazioni delle cannine del lago, ora non può più raccoglierle. "Sarò costretto a chiudere"

di Giovanni Landi

"È tutto molto triste, ma se va avanti così sareiamo costretti a gettare la spugna e a chiudere". Orlando Zoppitelli ha passato la vita fra le cannine del lago Trasimeno, nella piccola impresa fondata dai genitori a Magione, nell’oasi naturalistica La Valle di San Savino. Un tesoro di tradizione e competenza che per decenni ha esportato manufatti in tutta Italia, e che ora rischia di scomparire definitivamente. E non tanto per l’età del titolare, 81 anni pieni di energia, quanto per il progressivo ridursi dei canneti e le conseguenti normative che vietano di tagliarli e asportarli, rendendo impossibile traghettare quest’arte verso il domani.

Zoppitelli, che succede?

"Molto semplice: la materia prima non c’è più e le macchine non girano più. Abbiamo fatto questo lavoro per anni, ma oggi se raccogli le canne rischi una denuncia per usurpazione dell’ambiente. Eppure è un controsenso: adesso tutti cercano elementi naturali, e cosa c’è di più naturale di questo?"

E’ l’effetto del progressivo declino dell’ecosistema.

"Vero, ma la cannina se non viene mietuta diventa un vespaio, e comunque la raccolta avviene nei mesi invernali, quando il suo contributo a fauna e flora è minimo. Non è così, a mio avviso, che si difende l’ambiente".

Come è nata la vostra impresa palustre?

"Mio padre aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale. Quando tornò dall’Abinissia bisognava inventarsi un lavoro. E lui aveva il lago davanti agli occhi. È iniziato tutto con una piccola capanna, poi il tempo ci ha fatto crescere e abbiamo costruito un fabbricato, affiancando l’artigianato alla pesca".

Cosa facevate esattamente? "Si andava in barca a tagliare le canne e poi si usavano i telai per lavorarle. L’attività ha conosciuto varie fasi. All’inizio producevamo soprattutto soffitti per le case, con il gesso. Con le canne di palude allora si facevano le tamponature dei soffitti. Le travi non si dovevano vedere e quindi si coprivano con i pannelli. Poi veniva passato l’intonaco e il soffitto era pronto. Oggi invece vengono scoperti per motivi estetici. Poi è subentrato il settore laterizio, perché i fornai avevano bisogno di coperture per far asciugare i mattoni. In seguito è esploso il settore delle recinzioni e poi quello delle serre per fiori. Arrivavano commissioni dalla Liguria fino alla Sicilia, con ordini anche per mille rotoli alla volta. Di recente abbiamo avuto a che fare con gli agriturismi, che ci chiedono tettoie, capannine e ombrelloni".

In quanti avete lavorato qui?

"Con i canneti ci abbiamo vissuto tutti, mia madre Giuseppa e i miei quattro fratelli, Marcello, Antonio, Pietro e Fernando. Ai tempi d’oro impiegavamo diversi operai stagionali, avendo quattro telai con tre postazioni ciascuno".

Un’antica arte, diventata attività di successo

"Siamo stati bene e abbiamo fatto studiare i figli. Poi nel tempo tutto è cambiato. È arrivata pure la concorrenza dei Paesi dell’Est, penso alla Romania. Prezzi tre volte più bassi dei nostri. Come si fa a competere quando per fare questi ombrelloni artigianali ci vuole non meno di una settimana di lavoro?". La sua azienda è un autentico museo del mestiere, con tanto di macchinari e strumenti d’epoca. Davvero non c’è futuro?

"I nostri figli fanno altre cose. Avevamo costruito tutto questo per loro, ma hanno capito che non c’erano prospettive. In autunno smetteremo. Se il mercato e le leggi vanno in un’altra direzione, la passione e l’esperienza non bastano più".