Tristezza e rabbia. Ho aspettato qualche giorno prima di scrivere del Pecci, volevo far sedimentare appunto la rabbia e la tristezza, essere sicura che i sentimenti e le emozioni negative di questi giorni non condizionassero le mie parole. Tristezza e rabbia restano, però, perché la conoscenza di quel museo, l’affetto per quel museo, rafforzano anche la ragione di quello che sento. Il Pecci è un problema grande per Prato - ce ne sono parecchi di più gravi per i pratesi, per la città - ed è un problema enorme per la cultura a Prato. Licenziare due persone con una raccomandata, così, per raggranellare dicono i sindacati meno di 60mila euro, di fronte agli oltre due milioni di denari pubblici, dei cittadini, di cui il Pecci beneficia da anni a fronte di solo 1.260 biglietti interi staccati nel 2022, è talmente ingiusto e insensato da aver fatto deflagrare una domanda sacrosanta: che senso ha il Pecci, se costa così tanto, se è così scollegato dalla città, se non attira visitatori, se un presidente e un cda mettono in atto, con il direttore che acconsente, una scelta del genere?
I principali finanziatori, Comune e Regione, nel teatrino di questi giorni si indignano, ma lo sapevano che questo era nell’aria... Che senso ha? Perché Biffoni non ha detto pubblicamente che la fiducia in Bini Smaghi non c’è più? Perché non dice che la sua gestione è stata un fallimento, al netto di questi licenziamenti che giustamente hanno scatenato le proteste e l’indignazione dei sindacati, della città? Vado oltre. Era necessario che il presidente e il suo direttore così maldestramente agissero in questi giorni per rendersi conto di quanto inadeguata sia stata la gestione Bini Smaghi?
Il Pecci simbolo della Prato contemporanea, con la sua antenna che intercetta le tendenze del futuro. Magari fosse così. Questa è la narrazione del Pd, cara soprattutto all’assessore Barberis che in viale della Repubblica ha creato il suo Urban Center, luogo di finte partecipazioni, di tavoli e convegni per i soliti eletti (con i soldi europei e dei cittadini), in cui si ragiona di Urban Jungle (ancora sulla carta dei rendering da nove anni), di Prato carbon neutral free (nella città dei sacchi neri abbandonati), di un’economia circolare che circola bene, fra loro. Parole, soltanto parole. Poi licenziano due persone, la perdita del 2022 è 330mila euro (il doppio del contributo annuale al Museo del Tessuto), le mostre non attirano, i visitatori sono pochissimi, ma ci sono consulenti ben pagati e non toccabili. Giustamente i sindacati dicono basta. Conosco bene il Pecci, la sua storia. Come e perché è nato. Da giovane con il Pecci ho collaborato, da assessore alla scuola con il Pecci ho sostenuto i laboratori ispirati a Bruno Munari, una lezione da non dimenticare. Mi chiedo però: può permettersi Prato un Pecci così? La mia risposta è no. Ora che il bubbone è scoppiato, e tanti dicono o scrivono sui social quello che da tempo in città tanti pensano, che si deve chiudere, perché troppo costa e poco dà a questa città, dico che una pausa di riflessione è necessaria. Che questo cda che agisce in regime di proroga non è all’altezza di gestire il Pecci. Che il Comune, principale finanziatore, non ha esercitato le funzioni di indirizzo e controllo che erano necessarie. Che la città ha il diritto di interrogarsi e di chiedere risposte sulle strategie future per salvare o non salvare il Pecci. Che il sindaco e l’assessore alla cultura Mangani dovrebbero fare mea culpa.
Fuori scala per Prato, tanto più adesso che è più grande e molto più costoso e con meno visitatori, senza comodi collegamenti con Firenze, che potrebbe assicurare un bacino d’utenza turistico nel frattempo assorbito da Palazzo Strozzi, di cui Bini Smaghi era presidente prima di venire qui - belle le mostre su Anish Kapoor o Yan Pei-Ming , in confronto alle nostre retrospettive sulla galleria Scheda. Dimenticavo però che il nostro governatore Giani in campagna elettorale tre anni fa ci ha promesso la tramvia...Peccato che in tre anni non abbia neppure nominato nel cda del Pecci i due rappresentanti che spettano alla Regione. Fuori scala rispetto ai finanziamenti che il Comune, per tornare alla nostra Prato, per quel poco che di autonomia resta, può garantire alle altre istituzioni culturali della città. Perché come dicevo all’inizio questo è un problema enorme per la cultura a Prato.
I numeri sono oggettivi. Niente narrazioni su questo. I costi aumentano per tutti, bollette, benzina, spesa. Che non si sacrifichino mai Museo del Tessuto, Camerata, Politeama, Scuola Verdi, biblioteca Lazzerini, Palazzo Pretorio, ma neppure i contributi alle associazioni, ai circoli, alle bande o ai cori, in nome del Pecci. Perché la cultura che arriva alle persone, che è fatta dalla passione delle persone, è necessaria come l’aria che respiriamo.
Rita Pieri
Responsabile nazionale cultura Azzurro Donna