Il piacere del convivio. Quando il ristorante celebra gli incontri con il sigillo dello chef

Tommaso Melilli sarà questo pomeriggio al teatro Bolognini "Sono tornato in cucina da otto mesi. Il pubblico mi manca . Ma sono felice di aver creato una macchina dei desideri che funziona".

Un "sublime pretesto" per arrivare ad altro. Accade a tavola, o meglio al ristorante, terreno d’incontro socialmente neutrale che proprio per questo è nato: offrire un luogo dignitoso, di pubblico accesso dove incontrarsi e finire o stringendosi la mano per siglare un accordo o a letto, per celebrar l’amore. Insomma, il ristorante storicamente come luogo nel quale "provinare" il potenziale socio o amante, due secoli fa come oggi, con la differenza che adesso accade tutto in modo molto più liberale. È lo chef e scrittore Tommaso Melilli a parlarne (oggi alle 17, teatro Bolognini) in "Perché andiamo al ristorante?", forte di un’esperienza che lo ha visto incrociare tante persone, nelle cucine come nelle sale. In Francia, dove ha lavorato per molti anni, e in Italia, dove oggi è co-proprietario del ristorante Gloria, A Milano.

Più interessanti le storie delle persone che cucinano o quelle delle persone che mangiano?

"Le prime, perché sono anche quelle raccontate meno. È interessante il racconto di quello spazio ibrido, intermedio tra il dentro e il fuori, dove ci sono scontri, capitomboli. Dove paradossalmente si è sempre insieme, si condivide tanto di una animalità istintiva, di corpi vicini e poco di chi siamo veramente. Sono tornato in cucina da otto mesi. Sì, forse lo scambio col pubblico mi manca. Ma vado a letto soddisfatto per aver creato una macchina dei desideri che funziona. È bello essere lì. È per celebrare gli altri. E per pulire dopo".

Perché oggi il cibo è ‘food’ e il mangiare è diventato un’ ‘esperienza’?

"All’origine c’è una sostanziale trascuratezza dimostrata dalla cultura ufficiale almeno per tutto l’Ottocento. Oggi invece il cibo è rientrato in argomento in modo quasi eccessivo. Ne parliamo tanto perché abbiamo quella strana sensazione che tutto possa finire da un momento all’altro. Per il clima mutato, per l’agricoltura in difficoltà, per gli stipendi miserabili. In Italia il problema è persino più grave. Un po’ per spinta politica, un po’ da soli abbiamo deciso che la cucina e la tradizione italiana debbano avere un ruolo totemico, di focolare intorno al quale ci incontriamo. Ma davvero non abbiamo niente di più che una carbonara per riconoscerci? C’è una sensazione costante di assedio da parte della farina di insetti e carne coltivata. Fesserie, utili a nascondere il fatto che mangiamo molto peggio. Che col favore delle tenebre, a casa guardando Alessandro Borghese, mangiamo filoni di pancarrè".

I vari show gastronomici hanno cambiato il nostro rapporto con il cibo?

"Non nella misura in cui ci insegnano a cucinare. All’inizio era diverso, si imparava qualcosa guardandoli. C’era più pedagogia. Ora è solo passatempo".

Ha lavorato a lungo in Francia: tutto il mondo è paese, in tema di ristorazione?

"La curiosità per il nuovo e per il diverso dipende sempre e ovunque dappertutto da predisposizioni culturali. In questo sì, tutto il mondo è paese. Dopodiché in Francia, paese che ha inventato i ristoranti, c’è maggiore predisposizione alla fiducia, al piacere di essere serviti, si va di più al ristorante. In Italia ci stiamo arrivando. Compatibilmente col fatto che gli stipendi non aumentano da 35 anni".

linda meoni