Un pisano a L'Avana: "Maradona era mio zio"

Il regista Lorenzo Garzella e quell'intervista ''impossibile"al D10s del calcio a L'Avana nel 2005. Dagli aneddoti sul gol del secolo all'appello per ritrovare la cartolina scomparsa, quella "per Pisa e Livorno, que se faccia la pace" autograta dal Pibe de Oro. Tutti i retroscena.

L'incontro fra Maradona e Garzella

L'incontro fra Maradona e Garzella

Lorenzo Garzella (Pisa, 1972). È regista e produttore cinematografico. Dal 2001 gestisce con Filippo Macelloni la casa di produzione Nanof (Roma). Ha firmato numerosi documentari, molti di argomento sportivo, distribuiti in Italia (Rai, Sky, Rcs) e all’estero, fra cui il lungometraggio Il Mundial Dimenticato (2011), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. A Pisa realizza da anni progetti crossmediali sulla storia della città con Acquario della Memoria, fra cui la cine-bicicletta, il cine-battello e il recente “walking cinema” sulle Mura di Pisa.

PARTE 1- Un arrivo al cardiopalma

Maradona era mio zio. Spiego meglio. Da qualche parte ho letto che nella vita, oltre alla famiglia di parenti che ci sta intorno, ci accompagna un'altra famiglia. E' fatta degli artisti e degli eroi che amiamo. Persone che magari non incontreremo mai, ma con le quali dialoghiamo in continuazione, anche di più che con i nostri “veri” parenti. Ci guidano, ci fanno sentire meno soli, ci fanno crescere e divertire... Ecco, in questa speciale famiglia, Gabo Marquez e Leonard Cohen sono i mie nonni, per dire. E c’è gente come David Bowie, Pierpaolo Pasolini, Tina Modotti…  E in questo senso Diego Maradona era mio zio.  È mio zio. Gli voglio bene. Ed è pure un’eccezione. Perché è l’unico che ho incontrato davvero, in carne (tanta) e ossa. E mi piace ripensare a come l’ho conosciuto, a cosa mi ha raccontato, e a com’è diventato mio zio.

 Io di lavoro (fra l’altro) faccio i documentari. E nel tempo ne ho fatti tanti sul calcio, dalle squadre di detenuti agli uffici della Fifa. Nel 2005 un dirigente Rai mi fa: Maradona è a Cuba, ci sarebbe la possibilità di andare a fare un’interv… Ma io sono già sull’aeroplano e sto atterrando all’Avana, e ho già visto e rivisto e letto tonnellate di cose su di lui. Al mio fianco c’è Francesco Andreotti, a fare da cameraman e direttore della fotografia, compagno di tante avventure. E questa non è da poco: due pisani all’Avana per incontrare il mito del calcio n.1, letteralmente: perché in effetti il documentario che devo fare è l’apripista di una serie che si chiamerà proprio “I Miti del Calcio”.

 Sbarchiamo di notte e nell’afa caraibica ci aspetta la prima sorpresa: nessuna traccia dell’attrezzatura. Bagagli smarriti. Niente microfoni, niente luci, niente videocassette (all’epoca si girava in cassette voluminose e pesanti che si chiamavano Betacam). Ci rimangono solo le due telecamere e una striminzita cassetta d’evenienza. L’intervista è fissata per l’indomani alle 14. Impossibile spostarla: il personaggio è fra i meno gestibili del pianeta, il nostro aereo di ritorno è fissato solo due giorni dopo, l’organizzazione e la diplomazia hanno costruito un ingranaggio delicatissimo. Lui è sull’isola per disintossicarsi dalla cocaina, ospite di Fidel Castro, che lo tiene in clinica come una specie di detenuto di lusso, guardato a vista. Teme che il Diego gli sfugga di mano e si perda per le tortuose tentazioni dell’Avana. E ci rimanga secco. D’altra parte pesa 100 chili, pare, e ha avuto un infarto da poco. E Fidel certo non vuole che la Perla dei Caraibi diventi la tomba del D10s, porterebbe pessima pubblicità e un’aura macabra di sfiga cosmica sull’isola. El Pibe de oro sta qui chiuso in un bozzolo per provare a rinascere. L’uscita per l’intervista è una specie di regalo di compleanno. Non si può sfuggire dal 25 ottobre.

Così io passo la notte in bianco, gli occhi pallati e la fronte gelida di sudore a ripetermi mille volte una specie di preghiera al contrario, una litanìa dei rimorsi e della paura: Perché? Perché non abbiamo provato a portare più cose a bordo? Almeno le cassette… Le cassette con noi nel bagaglio a mano, cassette, con, noi, bagaglio, a, mano… E ora? E ora?… E ovviamente una simpatica voce mi culla: ti hanno dato fiducia, hai attraversato l’Atlantico, devi incontrare il tuo idolo, hai la possibilità di chiedergli tutto quello che vuoi, sa dio quanto hanno pagato El Diego… e tu non riporti a casa quasi nulla… hai chiuso, cercati una baracca sul mare, vai, e rimani direttamente qua….

 All’alba all’aeroporto nessuna traccia delle attrezzature, impossibile che arrivino in tempo. Iniziamo a girare come pazzi per la città. Se fossimo nel 99% delle capitali del mondo non ci sarebbe problema. Ma qui siamo a Cuba, patria del grande Fidel, del mio amato Che Guevara… mannaggia a loro. Qui non ci sono negozi che vendono il materiale professionale che ci serve. Maledetto embargo, maledetti Yankees. Ci inoltriamo fra cortili, capannoni, sgangherate case di produzione. A guidarci arriva il figlio di Aldo Biscardi, esperto dell’isola che fa da mediatore per l’operazione. Incontriamo pigri e assonnati addetti ai lavori, che ci palleggiano fra colleghi, amici di colleghi, colleghi di amici di colleghi… I ritmi rilassati dei tropici poco si addicono alla nostra folle fretta, siamo circondati da torme di bambini festanti. Ai miei occhi è ovvio che ridono solo per prenderci per i fondelli, hanno ali di pipistrello e occhi di diavoli. Il ricordo di quella mattina è stato cancellato, mi rimane solo il senso di un lungo e segreto batticuore di terrore, in completo asincrono con quell’inferno indolente, allegro e colorato.

  Alla fine, non so come, si riesce a raccattare l’essenziale, non tutto è perfetto ma ci siamo. Per preparare il set c’è pochissimo tempo. Mi ricordo di un’abat-jour accesa per bilanciare la luce di un faretto. E manca il controluce (un cruccio che tutt’ora, dopo 15 anni, mi punge ancora con fastidio). Comunque in qualche modo ci siamo. Come in quei cartoni animati in cui tutto è per aria fino a un attimo prima, e poi quando si apre la porta è tutto a posto e con un sorrisino rilassato si accoglie l’ospite: “Benvenuto, prego, da questa parte”. Non c’è stato neanche il tempo per emozionarsi, o per ripassare qualche domanda. Non si fa parola della nostra disperata ricerca, e la grandezza di Diego ridurrà a briciole insignificanti anche queste vicende.

PARTE 2 - L’incontro con El Diego

 

Ottobre 2005. A Cuba per intervistare Maradona. Dopo una notte e una mattinata da incubo, a rimpiazzare attrezzature perdute, finalmente arriva il momento di incontrare Maradona.

El Pibe arriva in mezzo a una piccola delegazione, ci sono anche le figlie, e un sosia napoletano che ha pure i suoi identici tatuaggi e lo segue dappertutto da anni, pare. Come luogo dell’intervista è stato scelto un posto neutro, una sala dell’hotel. L’idea è evitare deviazioni pericolose dal percorso clinica-intervista-ritorno. Il tutto dovrebbe durare una mezz’ora. Passeremo insieme quasi l’intero pomeriggio.

È il giorno del suo 45° compleanno, e gli ho pure portato un regalo assurdo, un pacchettino con un libro (non dirò il titolo) e un quaderno… D'altra parte: Daje, mollace, ma che je voi  Comunque eccolo. È basso e rotondo, una palla, simile a quello del film di Sorrentino, ma più giovane. A guardarlo quasi non ci si crede, che sia lo stesso folletto tutto nervi che ha ridicolizzato le difese di mezzo mondo. C’è un film del 2000 che si chiama “Il professore matto” in cui l’attore Eddie Murphy viene ingrassato con gli effetti speciali fino a diventare quasi irreale. Ecco l’impressione è una cosa del genere. Eppure sembra abbastanza a suo agio anche in quel suo sovraccorpo, trasuda energia, elasticità perfino una certa agile grazia impettita. Pare che abbia una specie di alopecia alle sopracciglia, ma a guardare meglio sono rasate a strisce, quasi tigrate, è un vezzo.

Gli vado incontro e mi passa per la testa una grandinata di immagini. Tutti i pensieri che non ho avuto il tempo di avere nella notte e nella mattinata si concentrano in una manciata di secondi. Mi scorrono nella mente le immagini del Maradona che prende a fucilate i giornalisti, di quello che tira pugni ai paparazzi, che prende selvaggiamente a calci gli avversari in una rissa (finale di Coppa del Re 1984), quello che sputa sui mass media, quello contro tutti, incazzato, polemico, che vede e denuncia complotti e ingiustizie in ogni dove.

Niente di tutto ciò. Sorride. Guardingo, ma di buon umore. A me resta subito simpatico. Credo che lo senta, insieme alla mia curiosità viva. Mi sale un’euforia benefica. Nel giro di un quarto d’ora siamo connessi, in un altro mondo, come isolati da tutto, io e lui, un universo di racconti, sorrisi, osservazioni.

 Ripensandoci credo di aver avuto una buona dose di fortuna. È in un periodo di grande lucidità, pulito dalle sostanze, e probabilmente si deve annoiare parecchio, mi sa, nell’isolamento della clinica. Quindi alla fine il diversivo dell’intervista, con qualcuno pronto a chiedere e ascoltare con entusiasmo, deve divertirlo molto (in mancanza di meglio). In più è un po’ di tempo che non rilascia interviste, ed è quindi disposto a raccontare  in modo fresco anche vicende che devono avergli chiesto un milione di volte. Mi da’ l’impressione che abbia proprio voglia di parlare di calcio, del gioco. Ed è quello che mi interessa di più, provando a scivolare il meno possibile nella retorica del campione maledetto e a scavare invece nella gioia e nei segreti dello sciamano del pallone, del dio bambino capace di trasformare squadre di semi-brocchi in armate invincibili pronte a vincere scudetti e Mondiali.

Alla fine sembra non aver nessuna fretta di concludere. Stiamo insieme a lungo, e parliamo soprattutto di quello, della magia complessa del gioco del calcio. Del mistero del talento. Del rapporto fra fantasia e velocità. Di quali siano i piaceri più grandi di una partita. Di come calciava i rigori. Di come tirava le punizioni. Di come si controlla la palla. Di come ci si può allenare a usare anche le mani. Me ne accorgo quasi subito: se gli prende bene è un fuoriclasse anche a raccontare le cose. Pochissime banalità, tantissimi dettagli raccontati con gusto, un modo di gesticolare e un’espressività fuori dal comune. Ce ne sarebbe da dire. Qui non c’è spazio.

Dovendo scegliere mi soffermo sul Gol del Secolo. Sì, è un tema trito. Eppure ci sono due o tre cose che credo non tutti abbiano ben presenti. E credo rivelino aspetti non trascurabili del mistero sovrannaturale e contraddittorio di Maradona (che ovviamente è fatto anche di tante altre cose, che non so né saprò mai).

PARTE 3 - Due-tre cose sul Gol del Secolo (4.300 caratteri)

Ottobre 2005. A Cuba per intervistare Maradona. Dopo diverse avventure arriva l’incontro con Maradona: grassissimo, di buon umore, pronto a raccontare. Inevitabile: si arriva a parlare del Gol del Secolo.

Innanzi tutto apre con un sorriso luminoso e un’introduzione quasi stupita, meno scontata del previsto: “Nella mia vita ho giocato moltissime partite, in Italia, in Argentina, e nel mondo, e non sono mai riuscito a fare quel gol … A me mi è uscito quel gol, che è quello che avevo sognato tutta la mia vita… Mi è uscito in un Mondiale!” (Messi, che io stimo, prenda appunti NdR). “L’ho fatto in un momento storico, contro l’Inghilterra, che era il nostro più grande avversario dopo la guerra delle Malvinas, che comunque era stata un errore del nostro governo. Ma tutti gli argentini avevano qualcosa dentro, dopo essere stati massacrati dagli inglesi, e io l’ho tirato fuori! E mi fa molto piacere! Giuro!”. Ed è quasi impossibile descrivere il senso di soddisfazione gioiosa che emana il suo sorriso, il suo pugno che si alza come a esultare ancora, il suo petto gonfissimo dentro il suo corpo gonfio.

 Ma le cose più interessanti vengono subito dopo: non parla di sé, ma del merito di Jorge Valdano, il centravanti dell’Argentina. “Ho deciso di puntare verso la porta solo negli ultimi quindici metri. Perché io vedevo Valdano che andava verso la sinistra. E davanti a me c’era Fenquist, che era el ultimo difensore… Io portavo la palla e Valdano ha fatto da distrazione… Così Fenquist non poteva avere nella testa solo Maradona, ma doveva guardare tutti e due… doveva fare l’abanico…” (cioè esitava facendo il ventaglio fra i due attaccanti NdR). “In quel gol Valdano è servito molto! Mi ha permesso di far finta di passarla a lui e di andare invece dritto verso la porta”.

Così Maradona si trova davanti al portiere, Peter Shilton, dopo aver seminato  (con la palla al piede) cinque inglesi che continuano invano a inseguirlo (senza palla) in una corsa da oltre metà campo. E qui viene la seconda cosa interessante, che si collega a un fatto di sei anni prima. “Nel 1979 siamo andati con l’Argentina a giocare un’amichevole a Wembley, la cattedrale del calcio, sempre contro l’Inghilterra. Io ho fatto un’azione simile a quella dell’86, non da tanto lontano, ma una giocata quasi uguale… e quando mi viene incontro il portiere, che era Clemens, non era Shilton, e mi esce in modo quasi uguale, io calcio di esterno sinistro in diagonale, sul secondo palo, e la palla va fuori” - qui Diego fa una lunga pausa, poi prosegue - “Quando ritorno a casa mio fratello più piccolo mi sgrida: Perché non hai dribblato anche il portiere?!” - E qui  bisogna guardare la faccia di Diego, che mima il suo stupore dell’epoca (vedi fotogramma), quando risponde al fratello: “Ma guarda che io ho fatto il meglio che potevo!”. E il fratello: “No, no, avevi il tempo e avevi lo spazio per dribblarlo anche al portiere!”. E Diego conclude il suo racconto: “E questo si vede che mi era rimasto come un consiglio di mio fratello piccolo, e nel Mondiale mi è venuto in mente quando sono andato a esultare per il gol… si vede che nella computadora m’era rimasto!

Ecco, qui siamo nel cuore della faccenda, credo. Si svela un po’ del mistero del fenomeno Maradona. Megalomane, egocentrico, capo popolo. Ma raccontando il gol più individualista della Storia del Calcio quello che fa è dividere i meriti: prima con un compagno che non ha neanche toccato la palla (e che fra l’altro è Jorge Valdano, diventato dirigente del Real Madrid e simbolo di quei “poteri forti del calcio” che Maradona ha sempre combattuto) e poi con un fratello che all’epoca era solo un bambino.

Quindi, in sintesi. Da una parte: l’istinto sfrenato, il talento sconfinato, la fantasia al potere. Dall’altra: l’abilità di leggere la complessità del gioco di squadra, la capacità di ascoltare e immagazzinare dati come un computer poderoso, la generosità di condividere la gloria e la gioia, soprattutto guardando accanto e verso il basso, con i compagni, con i bambini, con i più deboli, con popolazioni intere.

Rimane sottinteso: resta sempre lui l’eroe-imperatore, ma la sua gloria è talmente abbagliante che non c’è bisogno di sottolinearla, e l’ego può lasciare spazio a un cuore, una sensibilità e un’intelligenza fuori dal comune, pronti a spartire la luce con gli altri.

PARTE 4 - Il dio e il suo contrario (4.700 caratteri)

Ottobre 2005. A Cuba per intervistare Maradona. El Pibe de Oro ha  raccontato il Gol del Secolo, svelando dettagli sorprendenti. Ora la telecamera è spenta e l’atmosfera si fa cameratesca. Fra le chiacchiere s’intravedono comunque sia il dio bambino che il demone.

A fine intervista si aggiunge un altro tassello al racconto di quella formidabile partita contro l’Inghilterra. E riguarda ancora l’umorismo di qualcun altro, non direttamente il suo. Io gli dico: “È bello che nel raccontarmi l’azione personale più clamorosa della Storia del calcio mi hai parlato in realtà non di te, ma di altri… di Valdano, di tuo fratello…”. Lui ride e mi fa “Eh… e non sai cosa mi ha detto il Negro Enrique negli spogliatoi!”. Bisogna sapere che si tratta del centrocampista Héctor Enrique, detto El Negro (destinato fra l’altro a diventare vice di Maradona nel 2010, allenando la nazionale argentina ai Mondiali sudafricani). È quello che gli ha passato la palla a inizio azione, una specie di disimpegno a mille chilometri dalla porta avversaria, un passaggio anonimo, pure abbastanza scomodo. E Diego deve avermelo raccontato in quel suo italiano misto a spagnolo, eppure a me nella memoria risuona stranamente in perfetto pisano. Forse perché chi ha passato parecchio tempo in Argentina, come me, impara a conoscere il filo invisibile che lega gli argentini ai toscani, quel tipo di umorismo tagliente e bonario allo stesso tempo. Beh il Negro Enrique sotto la doccia gli ha detto tipo: “ Gao deh, con quel popò di assist che t’ho fatto volevo anche vede’ che non segnavi!”. E Diego me l’ha ripetuto due o tre volte, con gli occhi luminosi e la risata di un ragazzino: “Te rendi conto cosa m’ha detto?!” e rideva. In modo vero, trascinante, contagioso. Ecco, ho pensato, qualsiasi pisano che abbia giocato a calcetto conosce bene questo tipo di battute da spogliatoio, una pura e leggera allegria che solo il “senso del gioco” sa regalare. E lì, insieme a Diego, quell’allegria era la stessa, autentica e infantile, ma era allo stesso tempo ultraterrena, perché El Pibe non stava scherzando sulla partitella del dopolavoro, ma sul Gol del Secolo. Ecco, ho pensato, sembra un’inezia, ma qui siamo ancora nel cuore della faccenda: il dio bambino. Uno dei motivi per cui - secondo la famosa citazione - se Maradona entra in un bar tutti si fanno intorno per offrigli un bicchiere, mentre se ci entrano Pelé o Beckembauer si aspettano che siano loro a pagare un giro per tutti.

Nel frattempo si è fatto tardi, e il pomeriggio con Maradona è quasi alla fine. Ma c’è ancora tempo per un paio di chicche.

 Io gli racconto della prima volta che l’ho visto, all’Arena Garibaldi… Lui: “Ah, el Pisa… Era sempre dura a Pisa… C’era Romeo vero? Anconetani… che personaggio. Ma a Pisa era dura, ci fu la monetina de Renica… il pubblico era tosto a Pisa”.

Poi ascolta con piacere il mio racconto. Io avevo poco più di dieci anni a quei tempi, e allo stadio ci andavo col babbo del mio amico Fabio. Si partiva sempre in ritardo, all’ultimo minuto, con un biglietto intero ci facevano entrare in due bambini, in Curva Nord, e le partite si vedevano in piedi, nella calca, sulle tribunette basse di cemento, e spesso erano già iniziate da qualche minuto. Ma quando c’era Maradona no, si doveva arrivare prima, per vedere “il riscaldamento di Maradona”,  che valeva come un pezzo di partita, quasi come un gol. E io me lo ricordo ancora chiaramente, fra i gomiti e i cappotti di quelli davanti, spuntare in campo e mettersi a palleggiare, di testa, di spalla, di tacco, con il pallone che non cade mai e tutto lo stadio a bocca aperta.

Lui è lì che mi guarda sornione. Gli faccio: “Era un spettacolo per tutti. Lo facevi per conquistare anche la simpatia dei tifosi avversari, di tutto lo stadio?”. Lui mi sorprende ancora, gli occhi furbi che si accendono: “No, no, non volevo ingraziarme tutto lo stadio… io lo facevo per dirvi: questo è quello che io so fare!… perché nessun altro sapeva fare quelle cose… E lo facevo per far crescere la fiducia dei miei compagni. E per avvisare tutti: io sono qui!”. Rispondo divertito: “Ah, ho capito, quindi volevi spaventarci!”. Lui se la ride, con aria di furfanteria. Il dio bambino fa spazio per qualche secondo a un demone astuto e insolente. Intanto io ho in mano un altro pezzo del puzzle. Pochissimi atleti nella storia dello sport, mi viene in mente solo Muhammad Alì, possono avere la stessa sfrontatezza e la stessa abilità nel giocare la guerra psicologica. Maradona lo faceva contro intere folle, con gusto, contro chiunque gli si parasse davanti da avversario, moltiplicando viceversa le energie dei propri soldati e dei propri tifosi. E ripensandoci, mi vengono in mente solo una manciata di condottieri simili, anche rispetto alla Storia in generale.

PARTE 4 - El D10s entra nella mia famiglia (5.000 caratteri)

Anno 2005. Rientrato da Cuba dopo aver intervistato Maradona, incontro molti suoi ex compagni e avversari. Ai miei occhi i loro racconti trasformano definitivamente l’idolo in qualcosa di più importante: mio zio.

 Torno a casa con tanti ricordi. L’idolo contraddittorio è rimasto intatto. Ha preso anzi spessore, profondità, simpatia. Ho intravisto il bambino e il condottiero, il dio e il suo contrario. Umano, divino, demoniaco. Ma non è ancora mio zio.

Il quadro si completa quando lavorando al documentario e alla serie “I Miti del calcio” inizio a incontrare a intervistare tanti suoI ex compagni di squadra e tanti suoi avversari dell’epoca.

 Io continuo comunque ad avere in mente il supertalento indomabile e capriccioso, che manda al manicomio gli allenatori e i dirigenti, che si lamenta con gli arbitri, che protesta con tutti,  che se ne frega delle regole, che esagera, recita, esaspera la mimica, che in campo sa piangere lacrime da perfetto interprete della sceneggiata napoletana.

Mi sbaglio. Visione miope e parziale. Scopro che nel mondo dei calciatori la sua immagine è molto diversa. E bisogna pensare che in questi anni Maradona non è affatto la divinità super partes beatificata nel 2020. In Italia brucia ancora la sconfitta nella semifinale ai Mondiali casalinghi del 1990, tempi in cui gli stadi e i telespettatori di tutto lo stivale - ad eccezione di Napoli - hanno fischiato, detestato e odiato il numero 10 dell’Argentina. E via via si sono stratifcate molte ombre sul personaggio: collegamenti con la camorra, figli illegittimi non riconosciuti, guai e condanne col fisco, squalifica per doping ai Mondiali 1994. Nel 2005-2006 la leggenda è in piena costruzione, ma la santificazione è ben lontana.

Eppure. Eppure tutti gli ex calciatori che incontro ne parlano con ammirazione e con rispetto. Come se nel mondo di chi vive davvero il campo da gioco si fosse formata una bolla a parte. Gli avversari - fra gli altri Maldini, Ancelotti, Gentile… - descrivono un tipo tostissimo, una mago feroce, ma corretto e leale, quasi sovrannaturale nell’incassare colpi durissimi, quasi impossibile da buttare giù, come quei giocattoli col contrappeso alla base che si rialzano sempre.

 E più di tutto mi colpiscono gli ex compagni di squadra - fra gli altri Ferrara, Bagni, Giordano… -. Non uno - e intendo nessuno - ha tirato fuori parole come capriccio, arroganza, presunzione. Il coro si è levato unanime per raccontare di uno che ci metteva sempre la faccia, che sapeva dare ascolto e attenzione, che sapeva fare in modo di farti sentire molto più forte di quel che eri. Uno che dava tutto e per cui eri pronto a dare tutto.

 Ultima cosa, una sfumatura, ma credo sia la goccia che mi ha fatto dire:  vabeh, mi arrendo, per me è più di un idolo del calcio, io me lo prendo come uno di famiglia (la mia famiglia d’elezione, vedi inizio), uno da tenere sempre vicino. Un nuovo zio! Nella mia memoria è una cosa che mi hanno confermato un po’ tutti, di sicuro me l’ha detta Francesco Romano, ex centrocampista del Napoli: “In ogni partita che ha fatto, e dico tutte, dalle grandi sfide alle partitelle di allenamento, non l’ho mai visto lamentarsi con un compagno per un passaggio sbagliato. Mai. E voglio dire: lui era Maradona!” (Ibrahimovic, che pure io amo, prenda appunti NdR). E questa è l’ultima tessera del mosaico, per quanto mi riguarda. Penso a tante superstar di oggi, che esigono palloni perfetti e fulminano i compagni al minimo errore. Ma penso anche a me stesso, alla squadra di basket di mio figlio… No, non trovo esempi del genere, neanche fra noi mortali, gente tecnicamente anni luce - sottolineo anni luce - inferiore a Maradona. Ecco, credo, è anche così che si trascinano squadre mediocri a vincere i Mondiali e gli scudetti. È anche per questo che Maradona è stato l’uomo più popolare della Terra, lasciandosi anche il Papa alle spalle. È anche per questo (insieme a molto altro che non so né saprò mai) che il mondo intero si affanna (io compreso) da giorni e giorni a versare fiumi di lacrime, di inchiostro e di pixel a proposito di Diego Armando Maradona.

Chiudo con una preghiera. In quell’ottobre 2005, a Cuba, nel dopo intervista, Maradona ha anche firmato un appello curioso. La trovata è stata di Francesco Andreotti, mio compagno d’avventura. Su una cartolina El Pibe ha scritto: “Per Pisa e Livorno, que se faccia la pace!”. Firmato: Diego Armando Maradona. Probabilmente una delle prove più eclatanti delle sue manìe di onnipotenza divina. La richiesta era davvero spropositata, troppo anche per lui, El D10s in persona. La sua autorità era comunque indiscutibile, e la reliquia è stata tenuta per anni come un santino, fra circoli e centri sociali pisani. Un brutto giorno qualcuno l’ha rubata. Un gruppo di ultras pisani integralisti? I livornesi? I servizi segreti della Fiorentina? Già anni fa l’appello per la restituzione è stato pubblicato invano (fra l’altro pure dal Vernacoliere). Ora crediamo sia giunto il momento di rinnovarlo: fatevi avanti, ora che Maradona ci ha lasciato, restituite la cartolina della pace impossibile. Promettiamo l’impunità.

Lorenzo Garzella