L’Italia, il virus e l’inconveniente della morte

L'editoriale della direttrice della "Nazione"

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

Firenze, 6 dicembre 2020 - Una cosa più di altre ha suscitato la mia indignazione negli ultimi giorni. Mi riferisco al silenzio inaccettabile della politica sul numero di morti da Covid 19 nel nostro Paese: nella sola giornata di giovedì quel numero ha sfiorato quota mille. Un drammatico record. La sera stessa il premier Conte, in conferenza stampa per spiegare i dettagli dell’ultimo Dpcm, non ha speso un sussulto del suo tempo per parlare di una questione che dovrebbe essere al primo posto nel dibattito pubblico. E invece è all’ultimo. Nella graduatoria della John Hopkins University di fine novembre, l’Italia risulta terza al mondo per indice di letalità del virus. Peggio di noi soltanto il Messico e l’Iran. Ieri eravamo a 59.514 morti da inizio della pandemia. Per dare un ordine di grandezza: in Germania i morti superano i 18mila, in Spagna i 46mila. 

Di fronte a cifre evidentemente fuori controllo, da circa otto mesi a questa parte sento pronunciare solo trite giustificazioni, tanto dalla nostra classe dirigente quanto da autorevoli esperti di task force e comitati vari: spaziano generalmente dalla sfortuna cosmica al destino infame, fino al cinismo ammantato di evidenti tentazioni eugenetiche con cui qualcuno si ostina a ricordarci che i morti in questione sono molto anziani. Non mancano poi le spiegazioni di natura antropologico-sociologica, su cui esiste ormai una letteratura largamente dotta e nutrita: siamo uno dei paesi più vecchi al mondo (ma in Giappone, dove l’età media della popolazione è di 84 anni, i morti sono poco più di duemila), nelle nostre famiglie giovani e anziani vivono a stretto contatto aumentando la possibilità di contagio, in Italia le «patologie pregresse» che aumentano il rischio di morte legato al virus «sono più gravi che altrove». 

Al netto della plausibilità più o meno scientifica di tali affermazioni, sono costretta a ricordare che non indignarsi per le morti da Covid, in un Paese che si fregia di essere civile, equivale a una specie di rimozione storica. Perché la seconda ondata ha dimostrato che di Covid si guarisce anche a 80 anni se le cure sono adeguate e tempestive. Se i tamponi vengono fatti a tempo debito, e il risultato dei tamponi arriva in un arco di giorni ragionevole, se non vengono smarriti i reagenti, se funziona il tracciamento, se il personale medico è sufficiente a gestire la pressione dei nuovi casi anche a domicilio, se i malati non vengono lasciati soli.

In tutto questo la politica - i presidenti di Regione, le forze di maggioranza come quelle di opposizione - si accapiglia per tutt’altro (per dire: mercoledì il governo rischia di cadere sul Mes). Come se i morti fossero un inconveniente risibile e incidentale della pandemia. E non la nostra più evidente vergogna.