
Il sarcofago aperto in cattedrale con i resti di Enrico VII insieme a scettro, corona e mantello
Pisa, 31 dicembre 2016 - L’imperatore Enrico VII non venne avvelenato, ma morì curandosi con l’arsenico. E’ la conferma che arriva dai risultati della ricognizione sui resti del sovrano, il cui sarcofago si trova nella cattedrale di Pisa, eseguita dal professor Francesco Mallegni. Pisano d’adozione, già ordinario di Paleoantropologia della Facoltà di Scienze dell’ateneo pisano e per una decina di anni, in contemporanea, alle Università di Siena e di Agrigento e alla prestigiosa Scuola Archeologica Italiana in Atene, il professor Mallegni ha al suo attivo oltre 350 articoli sulle migliori riviste scientifiche e una decina di manuali per studenti universitari. Ha studiato scheletri illustri, tra i quali San Ranieri, Santa Bona, il beato Domenico Vernagalli, il conte Ugolino, Sant’Antonio da Padova, Giotto di Bondone, Andrea Mantegna, Vespasiano Gonzaga e Luigi Boccherini. Di seguito pubblichiamo la sua relazione sullo studio delle spoglie di Enrico VII.
«In concomitanza del convegno ‘Enrico VII, Dante e Pisa. A 700 anni dalla morte dell’Imperatore e dalla Monarchia (1313-2013)’ si è creduto opportuno prelevare dal monumento il suo contenuto comprese le spoglie di Enrico VII, queste ultime al fine di una loro analisi biologica, antropologica e che riguardasse eventuali aspetti inerenti la patologia. L’apertura del sarcofago e lo studio dei resti del sovrano si sono svolti nei locali dell’Opera del Duomo di Pisa. Nei secoli si sono succedute diversi trasferimenti dei resti dell’Imperatore, soprattutto per nuove sistemazioni del sarcofago, ma mai è stato realizzato uno studio biologico dei resti del sovrano. L’apertura ha permesso di recuperare anche altri reperti contenutivi: un gran telo rosso (con fasce azzurre recanti una serie di leoni affrontati) che avvolgeva i resti ossei del sovrano, uno scettro, una corona, un globo, tutti in metallo dorato ed un tubo in piombo, con una dell’estremità saldata; il tutto era giacente sopra uno strato di circa 12-15 cm di carboni, forse i resti della pira su cui fu bruciato il suo scheletro. Il cranio era completo, con le ossa della faccia abbastanza frammentate ma ricomponibili per ottenere il reperto pressoché completo. Il resto dello scheletro era frammentato ma ricomponibile quasi nella sua interezza.
Breve storia del sovrano - Enrico VII nacque a Valenciennes nel 1275 (circa), nel Dipartimento del Nord, nella regione del Nord-Passo di Calais; era figlio del conte Enrico VII di Lussemburgo e di Beatrice d’Avesnes. Fu eletto dal 1308 re di Germania ad Aquisgrana, poi re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte. Animato da principi di pace e di giustizia si propose di realizzare questi ideali sia in Germania che in Italia, dove scese nel 1310 per far valere i suoi diritti imperiali. Qui trovò buona accoglienza da parte dei Comuni del Nord Italia.
Il 1 ottobre del 1309 Enrico VII fu a Roma per essere incoronato Imperatore del Sacro Romano e lo divenne un anno dopo. Nel 1311 a Milano ricevette la corona ferrea, ossia la corona di re dei Romani (su dice che in questa occasione conoscesse Dante Alighieri). A Pisa nel 1312 dichiarò pubblicamente decaduto il guelfo Roberto d’Angiò e decise di combatterlo. Nonostante il parere negativo del suo medico il sovrano (già era sofferente di un male che poi lo condusse alla morte) partì da Pisa con più denaro che poteva (da quest’ultima circa 2 milioni di fiorini). Attraverso la Via Francigena arrivò nei pressi di Siena, città guelfa; le sue condizioni di salute si aggravarono e fu costretto ad una sosta. Si fermò ai Bagni di Macerato e alle terme di Santa Caterina, dove cercò sollievo. Proseguì poi e fino a Buonconvento, ma durante la notte una dolorosa ulcera nera (di antrace) si manifestò nella parte mediale del suo ginocchio di destra; il giorno dopo, venerdì 24 agosto del 1313, “a ora nona” (verso le 15) morì.
L’aspetto fisico del sovrano - Dalle fonti storiche e letterarie del tempo si viene a sapere che il sovrano era “Homo gracilis, statura prope iusta… statura paulo breviore mediocri” (cioè “statura di poco inferiore alla media”). L’antropometria svela che la sua statura si aggirava sui 1.78-80 cm. La narrazione circa la sua corporatura afferma che il sovrano aveva un corpo dritto e asciutto, specialmente se visto di profilo. Le analisi antropologiche hanno evidenziato che egli aveva arti superiori erano relativamente robusti, ma con dei segni nell’avambraccio, specialmente di sinistra, che ci fanno capire come il sovrano compiesse spesso movimenti sotto sforzo (tipo tiraggio delle briglie di una cavalcatura o maneggio di armi?).
Più robuste e con una indiscussa loro muscolatura sono quelle degli arti inferiori, probabilmente allenate ad un certo esercizio (grossi impianti dei muscoli delle coscia e della gamba, nel così detto polpaccio a cui si aggiunge l’ovalizzazione dell’acetabolo forse per adattamento nella cavalcatura all’abbraccio al ventre del cavallo), che si configurano come alterazioni osteologiche che si reperiscono costantemente nelle ossa di chi ha utilizzato spesso cavalli in spostamenti lunghi e /o frequenti. Cause della morte del sovrano – Da tempo Enrico VII soffriva di una malattia grave la cui causa è da ricercarsi, secondo quanto hanno narrato gli scrittori suoi contemporanei, nell’antrace. Questa patologia si manifesta come affezione endemica in animali erbivori domestici, quali pecore, bovini, cavalli, capre e suini selvatici o selvatici (cervidi), ma può anche svilupparsi nell’uomo per esposizione ad animali infetti e anche per inalazione di spore del batterio o per ingestione di cibo da queste contaminato. Pare che il malanno iniziasse in lui nell’assedio di Brescia nel 1311 (due anni prima della morte). “... In quello assedio si corruppe l’aria per la puzza de’ cavalli…” e vi morirono molti dei suoi commilitoni; vi si ammalò anche Margherita di Brabante, sua moglie, che poi morì a Genova, si dice però di peste, dove il sovrano si era spostato con l’esercito nell’inverno dello stesso anno. All’assedio di Firenze nello stesso anno continuò a soffrire forse della stessa malattia; egli lasciò questa città per giungere a Pisa, dove poi decise di andare a combattere il guelfo Roberto d’Angiò. Come già accennato, nel viaggio morì a Buonconvento. All’epoca, per curare l’antrace, ci si basava su pozioni e pomate a base di arsenico (se ne conoscono le ricette), anche se si sapeva benissimo della pericolosità di questo tipo di trattamento; si legge infatti che ci si doveva guardare dall’eccedere con questa “terapia” per non arrivare all’avvelenamento con conseguente e inevitabile decesso (risultato che si ebbe invece in Enrico VII).
Le cure contro un avvelenamento pare che consistessero in un’alimentazione quasi forzata a base di farinacei. Due laboratori attrezzatissimi, il Centro Ricerche e Servizi Ambientali, convenzionato con l’ateneo bolognese e l’Istituto di Chimica dei composti Organometallici ICCOM-CNR, Area della Ricerca di Pisa, hanno rilevato nelle ossa del sovrano, il primo, altissime percentuali di arsenico e di mercurio (utilizzato nelle pomate verso le ulcere cutanee del morbo antrace) e il secondo, altrettante alte di magnesio; quest’ultimo elemento si trova prevalentemente nei cereali.
E’ da credersi allora che il sovrano morì per cure eccessive e pericolosissime e non per delitto, come si voleva credere anche a seguito di una diceria che avrebbe visto un frate somministrare al sovrano un’ostia consacrata intrisa di veleno del napello (una bellissima ranuncolacea dai fiori blu, coltivata anche nei nostri giardini); purtroppo la bollitura subita dal cadavere del sovrano, durante il trasporto da Buonconvento a Pisa, ha distrutto l’alcaloide velenoso, sempre che sia stato usato); l’alcaloide del napello porta alla morte in poco tempo, anche in piccolissime dosi o succhiandone una parte del vegetale (le radici sono le più velenose). Questa diceria però in seguito è stata sconfessata.
Come precedentemente accennato il sovrano in caso di morte aveva chiesto di essere sepolto a Pisa, quindi, una volta deceduto, il suo cadavere fu portato verso questa città, ma il caldo dell’estate e l’infezione del morbo antrace (esso stesso ha un odore nauseabondo e ricordiamoci allora della “puzza dei cavalli” a Brescia), consigliarono di trattare i resti del sovrano con una bollitura, seguita da successiva scarnificazione e poi bruciatura delle sole ossa. La testa fu scissa dal corpo (ne restano i segni sull’occipite e sulla prima vertebra del collo) e bollita a parte, il resto fu “spolpato” (non vi si colgono scalfitture e abrasioni da coltello o altro strumento metallico), poi bruciato su di una pira (di cui si sono conservate le ceneri nel sarcofago, al di sotto dei resti avvolti nel telo e delle insegne regali, di cui si è parlato precedentemente). La bollitura del cadavere, usanza prevista e anche documentata al tempo per sovrani germanici morti lontani dalla patria (pare che l’usanza iniziasse con le crociate), per poi esservi ricondotti senza problemi di infezioni, a causa di possibili decomposizioni putrefattive, è confermata dall’aspetto vetrino delle ossa della testa (che non fu bruciata, come avvenne per il resto del corpo).
La natura degli interventi sul cadavere per la preparazione alla sepoltura è stata indagata dai Dipartimenti di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università del Salento; essi sono stati invitati per una intuizione dello scrivente su questi aspetti particolarità, che però necessitavano di prove concrete, e hanno potuto dimostrare che così fu l’avvenimento per la presenza di micro fenomeni nella compatta delle ossa, propri dei casi sottoposti a questo tipo di trattamento. Le ossa bruciate hanno dimostrato inoltre che in alcune porzioni dello scheletro (le mani ed i piedi, parte del bacino e gran parte della colonna vertebrale) arrivarono alla cremazione (per temperature prossime al 600-700°C) per la presenza di parti molli non tolte a causa della fretta nell’operazione (Paganico era in territorio senese e Siena, guelfa, poteva sferrare un attacco all’esercito germanico ormai privo del sovrano). Il Laboratorio 17 di Pontasserchio ha provveduto alla ricostruzione fisiognomica del volto di Enrico VII secondo tecniche comprovate e ha confermato quello che si sa secondo il racconto del Mussato, suo contemporaneo“ … eminentis superciliis…De planicie in acutum apice nasus se porrigit. Ore venusto, mento terete, coma gallica, quantum pollex operiret occiput..…” “…grandi arcate sopraciliari. ….Il naso appuntito si erge su una bella bocca, mento ben tornito… pettinatua gallica (alla francese dell’epoca) con i capelli sciolti che coprono la nuca nella misura di un pollice”».