"Non potrò più baciare la sua fronte Ma non l’ha ucciso la montagna"

Il tenero e struggente saluto di Alberto Grossi al figlio Mattia, morto a 34 anni in un incidente sulle Apuane

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di Alberto Grossi*

Dal tardo pomeriggio di ieri non posso più accarezzare i piedi nudi del mio adorato Mattia, non potrò più lisciare i suoi capelli, baciare la sua fronte, guardare il suo sorriso alterato da una leggera smorfia, non potrò più stringere le sue mani che si erano fatte fredde e dure come pietre, non vedrò più le sue palpebre grandi e perfette ancorché parzialmente tumefatte né mi capiterà più di scoprire una lacrima trapelare dalle sue ciglia e di sentire il groppo che ti prende alla gola mentre Pietrina asciuga con una delicata carezza del dito quel cristallo sfuggito alle regole, non lo potrò più toccare, nessuno lo potrà più toccare né baciare o accarezzare. Ho visto molte persone in questi due giorni: in gran parte conoscenti, amici, parenti, altre sconosciute, alcune che mi lasciavano nell’incertezza.

La storia è nota: la vita ci cambia e l’età fa incespicare la memoria. Ma il tardivo riconoscimento mi ha riportato all’infanzia di Mattia, ai suoi compagni di scuola, a quelli delle squadre di calcio in cui ha giocato, ai loro genitori. C’è stata una composta, grande e commovente partecipazione che si può leggere in tanti modi ma, dal mio particolare punto di vista, è stata utile per distrarre dal pensiero unico verso il proprio caro, una fissazione che provoca un loop avvelenante. Ho scambiato abbracci e apprezzato il sostegno di tutti, ho ritrovato amici miei o di Mattia venuti un po’ da tutto il circondario apuano ma anche appositamente da Genova, da Varese, da Como, da Asti, da Barcellona, da Perugia, da Firenze, da Roma, ho ricevuto messaggi dai luoghi più disparati d’Italia, ho ascoltato lo sgomento di chi mi si stringeva e singhiozzava di non aver parole da dire. In effetti c’è una soglia oltre la quale il silenzio ha il sopravvento, una tipicità delle sciagure che ci lasciano attoniti, incapaci di esprimere ciò che si prova; sono i momenti in cui si precipita nella dimensione delle emozioni (o, se si preferisce, dell’anima). Allora contano gli sguardi, i sospiri, le lacrime, il tremore di un petto contro il tuo, l’affetto, la pietà, l’amore, la solidarietà, la costernazione.

Ne avrei cose da dire, ne avrei anche per Mattia seppure, a giudicare dalla folla che lo ha accompagnato, molto di più potrei ascoltare da chi lo ha conosciuto, dagli amici con i quali ha condiviso esperienze comuni e magari scoprire quegli angoli che sono irraggiungibili dallo sguardo di un padre e rimangono trattenuti nel profondo degli amici più intimi. Ciò che non vorrei sentire da nessuno sono quelle parole che fanno parte di un cliché retrivo, consunto e distorto, non vorrei si ripetesse quella logica “illogica” di individuare per forza un colpevole laddove colpevoli non ci sono. Per essere chiari: la montagna non uccide nessuno. Esiste invece la casualità, la coincidenza, il fatto inspiegabile, l’errore umano, la valutazione sbagliata, un rischio mal calcolato, un imprevisto. Questo e altro accade ovunque ma non ho mai letto di un marciapiede che ha spezzato una vita mentre leggo spesso di montagne killer. Che la montagna non uccide lo sa bene chi la frequenta. Fosse vero il contrario in montagna non andrebbe nessuno. Chi va lassù ricerca e trova tutto ciò che il quotidiano nega come, per esempio, la libertà di muoversi a piacimento e in tempi non regolati da altri, può provare la sana fatica che è elementare conoscenza della resistenza del proprio corpo, può compiere un’escursione o affrontare la verticalità delle pareti, una specialità prettamente alpina i cui surrogati artificiali sono cose da circo. Arrampicarsi sulle rocce è ricercare i propri limiti, misurare le proprie capacità e valutare se queste sono all’altezza dei nostri desideri ed eventualmente ridimensionarli, è scoprire la soddisfazione di ammirare un fiore cresciuto su una cengia e imparare il suo nome; praticare l’escursionismo è il piacere fisico di attraversare un bosco fresco e rigenerante, la gioia di indovinare uno scorcio panoramico, il benessere nel respirare aria pura, lo scintillio di una risorgiva, lo stupore di vedere il mondo da un’altra parte del mondo e tante altre cose meravigliose, semplici mattoncini che, uno sull’altro, diventano gli elementi che forgiano gli spiriti liberi.

Mattia è andato in montagna perché ne era attratto, la amava e avrebbe imparato ad amarla ancora di più, perché lì rigenerava il suo spirito, perché tra le crepe delle rocce e a contatto della natura si sentiva bene, perché poteva decidere secondo il proprio arbitrio, perché valeva la pena faticare, salire, anche rischiare per diventare migliore. Per sé e per gli altri.

*Padre di Mattia,

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