
"Mia moglie incinta è fuggita" Divisa dal marito dopo lo sbarco e finita in una casa di soli uomini
di Patrik Pucciarelli
"Mi hanno fatto scendere dalla nave e sono stato arrestato. Mia moglie incinta di 2 mesi l’hanno portata via davanti ai miei occhi". E’ disperato H.M., tunisino di 24 anni. Il suo sbarco il 19 luglio dalla neve “Geo Barents” di Medici senza Frontiere che l’ha salvato in messo al Mediterraneo, è finito in un dramma che ancora non vede un’evoluzione positiva. "Sono sceso con mia moglie e nostro figlio che porta in grembo — racconta il giovane con l’aiuto del il mediatore—. Arrivati al centro per l’identificazione, mi hanno arrestato perché ero già stato rimpatriato. Da lontano vedevo che stavano portando via mia moglie ma non ho avuto il tempo di prendere il mio cellulare, che era nella sua borsa. L’ho vista sparire davanti ai miei occhi buttata su un autobus e spedita non so dove".
Poco dopo la ragazza incinta, che ha 28 anni, viene destinata al centro di accoglienza straordinaria di Pistoia dove deve fare i conti con una brutta situasione. Arrivata al ‘Cas’ si ritrova in casa con tutti uomini, mentre prova a riposare sfinita dal viaggio, sente una presenza vicino a lei, qualcosa che la sta sfiora. Apre gli occhi e trova un uomo proprio lì di fianco, lei si spaventa, lo spinge e scappa fuori dalle mura dell’alloggio gestito da una cooperativa. Dal centro nessuna notizia, nessuno sa nulla di dove sia andata. La giovane donna fugge alla ricerca di una parente che si trova in Italia, un paese del quale non conosce la lingua, non conosce nessuna strada, non sa nemmeno dove sta andando, ma vuole trovare a tutti i costi l’altra donna perché per lei è l’unica salvezza. Dopo qualche giorno riesce ad arrivare a destinazione e da lì si mette in contatto con il marito per dirgli che il bambino e lei stanno.
"Mi hanno chiamato dicendomi che un ragazzo che era stato diviso dalla moglie perché arrestato, aveva bisogno di un posto dove stare", racconta Sara Vatteroni, la responsabile della cooperativa ‘Casa Betania’. "Non sapevo dove metterlo perché gli immobili che ho a disposizione sono tutti pieni, così d’accordo con la Prefettura gli ho dato una sistemazione provvisoria, sul divano in una casa con dei ragazzi del Bangladesh". In quella casa dove il giovane tunisino arrestato ha passato qualche giorno, un venticinquenne racconta con le lacrime agli occhi la sua esperienza nelle carceri libiche. "Sono arrivato in Libia per imbarcarmi ma quando ero lì sono stato preso in ostaggio e messo in carcere. Per liberarmi hanno chiesto a mio padre i soldi, lui ha venduto la sua casa e con una parte del ricavato ha pagato i trafficanti per liberarmi e con l’altra il biglietto per la traversata" dice.
Il ragazzo tunisino, che ora si trova in una casa in provincia con l’obbligo di firma in questura, racconta di essere fuggito dal suo paese "perché là non si può vivere, i diritti umani non esistono e da un po di tempo ci sono migrazioni di massa". "Quando sono arrivato in Italia la prima volta era il 2022 – ricorda – ma a giugno sono stato rimpatriato a Tunisi con un volo charter. Una volta tornato a casa la situazione per me si è fatta ancora più difficile. Ho trovato lavoro in un’officina di scooter ma alcuni sapevano che ero scappato e per loro è come un tradimento. Così una mattina sono entrato al lavoro e davanti a me ho trovato tre uomini che hanno iniziato a picchiarmi. Mi hanno spaccato la mandibola in più punti e non avevo i soldi per curarmi. Diversi giorni dopo, sempre al lavoro, queste persone sono tornate, hanno continuato a massacrarmi di botte: mi hanno colpito in testa e sono diventato sordo dall’orecchio destro. Allora mi sono fatto coraggio, e con mia moglie ci siamo imbarcati a Sfax. Abbiamo navigato per tre giorni su una piccola barca fino a quando un elicottero è passato sopra le nostre teste, dopo poco è arrivata la Geo Barents che ci ha portati in salvo".
Una storia, la sua, che è solo una delle tante storie terribili che si leggono negli occhi dei migranti. Sguardi appesantiti dal dolore e offuscati dall’incertezza delle prospettive di una loro integrazione nel paese che li ha accolti. Mentre il sistema dell’accoglienza scricchiola sempre più forte sotto il peso del vuoto: di un piano nazionale, di organizzazione e di risorse.