Beni estimati, la battaglia va in Cassazione

Il Comune ha depositato il ricorso per chiedere l’annullamento della sentenza di Corte d’Appello che dava ragione alle aziende

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Al via la battaglia in Cassazione per i beni estimati: l’amministrazione comunale ha depositato il ricorso per chiedere l’annullamento della sentenza della corte d’appello di Genova del 28 giugno 2022, quella che dava ragione a 21 imprese del marmo con L’Omya Spa capofila (che avevano fatto ricorso contro il comune) riconoscendo una natura privata dei beni estimati. Ben 55 pagine di ricorso a firma dell’avvocato Domenico Iaria in cui si ripercorre la storia dei beni estimati dalla nascita ai giorni nostri. Alla Suprema corte il compito di stabilire se i beni estimati sono di proprietà pubblica, e dunque del Comune e della città, o se di natura privata e appartengono solo agli industriali del marmo.

Nel dettaglio nel ricorso del Comune si chiede di annullare la sentenza della corte di appello di Genova per tutta una serie di vizi, che sono la violazione e la falsa applicazione degli statuti Albericiani del 1574, dell’Editto del 1751 della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina, e dei principi derivanti dalla applicazione degli istituti dell’immemorabile e della centenaria. Ma anche perché secondo l’avvocato Iaria la corte genovese nel suo giudizio non avrebbe preso in considerazione altri importanti documenti come il ‘Rescritto Ducale’ del 12 gennaio 1753, l’Editto di Maria Teresa del 1771, e la ‘Notificazione Governatoriale’ del 24 settembre 1823, senza contare che alla fine del 2004, il Comune era riuscito a stipulare un accordo con tutte le associazioni di categoria al quale avevano formalmente aderito praticamente tutti i soggetti titolari di autorizzazione alla escavazione del marmo, che prevedeva espressamente che i concessionari pagassero (come poi hanno pagato) una tariffa unitaria (includente il canone) anche per i beni estimati.

Nel ricorso presentato da palazzo civico si insiste in particolare su un documento, gli ‘Statuta Carrariae’ del 1574 più comunemente detti statuti ‘Albericiani’ perché approvati da Alberico I, principe di Massa e marchese di Carrara, capostipite della linea dinastica dei Cybo Malaspina. Questo perché nel capitolo intitolato ‘De bonis et agris viciniarum vallis Carrariae’, è scritto nero su bianco la volontà del sovrano di tutelare i diritti delle ‘Vicinanze’, e cioè di porre un freno agli abusi commessi su quegli agri ai danni delle collettività vicinali (in particolare le occupazioni e il mancato pagamento dei canoni). Un documento in cui il principe affermava anche il regime di incedibilità di questi beni, se non a particolari condizioni, e precisando che questi soggetti sono possessori, occupatori o anche cessionari, ma mai proprietari degli agri.

Alessandra Poggi