"Vi racconto in favola il “mio“ Sepulveda"

Un anno dopo la morte per Covid, la traduttrice Ilide Carmignani pubblica un libro sullo scrittore cileno, fra aneddoti, ironia e dolore

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di Paolo Pacini

Un anno fa, proprio in questi giorni, vittima della prima ondata del Coronavirus, moriva in un ospedale spagnolo all’età di 70 anni lo scrittore cileno Luis Sepulveda. Una fine choc, in triste solitudine e in silenzio. Un epilogo quasi paradossale per un artista che era stato protagonista di una vicenda umana e letteraria capace di affascinare milioni di lettori. E questa biografia romanzesca, che lui stesso non si era mai deciso a scrivere, viene ora ripercorsa nel libro della sua traduttrice storica, la lucchese Ilide Carmignani, che esce proprio oggi per l’editore Salani: “Storia di Luis Sepulveda e del suo gatto Zorba”.

Un volume che racconta, con l’espediente letterario di un dialogo intimo e commovente tra lo scrittore e il gatto bibliotecario Diderot (uno dei protagonisti del romanzo “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”) la storia vera e da favola di un autore che ha fatto sognare grandi e bambini. Una storia che in Italia passa da sempre, appunto, attraverso le parole scelte con sapiente eleganza e misura da Ilide Carmignani.

Com’è nato questo libro così intenso, a un anno dalla scomparsa per Covid di Luis Sepulveda?

"E’ venuto quasi da sé. Erano anni che raccontavo nelle scuole, dagli asili alle aule universitarie, la sua storia straordinaria. L’avevo dentro ed è venuto fuori senza alcuna fatica, specie per il lato ironico e divertente. Avevo voglia di raccontare Luis Sepulveda anche negli aspetti meno noti, un po’ inediti, della sua straordinaria personalità".

Lui non aveva mai pensato a scrivere un’autobiografia?

"No, infatti. Continuava a rimandare questo progetto, preferiva scrivere le storie degli altri. Credo che non avesse mai trovato il momento giusto, anche se aveva ormai 70 anni e avrebbe potuto scrivere sette romanzi sulle sue... sette vite. Una storia incredibilmente bella e intensa la sua".

Già, un romanzo che abbraccia settant’anni di storia e di storie attraverso tanti Paesi...

"Si inizia dalla nascita, il 4 ottobre 1949, in un albergo della piovosa Ovalle, per arrivare alla sua scomparsa nell’aprile scorso per Covid. Dalla storia dei suoi nonni all’infanzia a Santiago, dal primo amore per una vicina di casa all’incontro con Carmen Yáñez Hidalgo. E poi, la Bolivia, i sandinisti, il viaggio a Mosca, l’entusiasmo per l’elezione di Allende e lo choc del tragico golpe. Poi l’esilio e la lunga esperienza in Amazzonia accanto agli indios Shuar, quelli che rimpiccioliscono le teste tagliate ai nemici. Fino ad arrivare ad Amburgo, dove inventerà la famosa storia della gabbianella per far addormentare i suoi bambini, con il gattone nero di casa come protagonista".

Il gatto Zorba...

"Sì. Che nel mio libro ho ripreso nel gatto Diderot, in questo dialogo favolistico anche divertente che mi consente di trasformarlo in un personaggio e farlo parlare di sé. Mi è sembrato di esserci di nuovo insieme...".

Il vostro primo incontro fu casuale, ma poi è nato un rapporto speciale, vero?

"Assolutamente. Sono sempre gli editori a scegliere i traduttori, ma da quel suo primo libro che tradussi nel 1993, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore“, in effetti è scattata un’amicizia molto bella e come dire... serena. Come tutte le persone famose era circondato da tante richieste, da persone che volevano qualcosa da lui. Non so, una prefazione, un incontro. Lui era molto generoso e non si risparmiava, ma con me si rilassava dalla frenesia delle presentazioni".

Un episodio in particolare?

"Beh una volta alla “Fiera delle parole“ a Montegrotto Terme nel 2016, a sorpresa, ci trovammo a parlare in un palasport con ben 3500 persone. Fantastico, ma anche... impegnativo. Una folla incredibile. Io da traduttrice, però , non avevo mai “favori“ da chiedergli. Il mio lavoro andava avanti anche con Roberto Bolaño o con il Gabriel Garcia Marquez di “Cent’anni di solitudine“... Quando era in Italia, Sepulveda passava a trovarmi volentieri, magari senza dare troppa pubblicità. Un paio di giorni e si ricaricava...".

Veniva spesso qui a Lucca?

"Sì, a casa mia a Torre è venuto molte volte. Anche con lo scrittore suo amico Paco Ignacio Taibo II. Una volta addirittura io ero fuori Lucca per un convegno sulla traduzione e lui mi chiese timidamente se poteva andare a casa mia lo stesso per stare tranquillo un fine settimana. Lucca era il suo buen retiro. Veniva, faceva una pausa, beveva il vino di Montecarlo...".

Uno di famiglia, praticamente.

"Eh sì. Ma tutto con estrema naturalezza e semplicità. Amava mettere le persone a loro agio, scherzare, era di una vitalità contagiosa. Un fatto per niente comune fra i grandi artisti. Era molto attento e interessato al mio lavoro di traduzione, ma anche incredibilmente disponibile a collaborare ogni volta. E ne ho tradotti 26 di libri dal 1993... Sì, in pratica era di famiglia!".

Questo libro che esce oggi è un omaggio bello e intenso, ma anche un po’ doloroso da tirare fuori, o no?

"L’unica parte del libro che mi è costata fatica e sofferenza è stata quella finale, dove si racconta di Luis che viene a mancare, ucciso dal Coronavirus. Ci ho messo tanto a scriverlo. Ho avuto difficoltà a tirare fuori tutto quel dolore: ho scelto di omettere alcuni dettagli più intimi della malattia e di trasformare comunque quel dolore in qualcosa di vitale, come avrebbe sicuramente fatto lui".

Una forma di rispetto, di pudore?

"Certo, ho deciso di comportarmi come faceva lui. Anche quando parlava della tortura, ad esempio, l’ha sempre raccontata con estremo pudore e senza indulgere in particolari “ad effetto“".

Alla moglie Carmen è piaciuto il libro?

"Carmen è stata molto contenta di questo progetto, mi ha mandato delle foto e anche una splendida poesia che compare all’inizio. Ha detto che questo libro è “un gesto di giustizia poetica“, visto che lui purtroppo non aveva potuto scriverlo per colpa del destino. Di quel maledetto virus...".