«Sono morta... per quattro ore. Mi risvegliai dentro la bara»

L'incredibile storia di Fedora Petroni Moriconi

Fedora Petroni

Fedora Petroni

Lucca, 31 maggio 2017  - TIRA una boccata di Ms bionde e, con la mano inanellata e ornata di smalto rosso, riaccomoda sul petto il crocefisso e l’immagine della Madonna che le pendono dalla collana: «Sono stata morta – racconta con naturalezza –. Mi risvegliai dentro alla bara e urlarono al miracolo». Fedora Petroni Moriconi, ancora elegante e vezzosa a 93 anni, scrive poesie e racconti da quando ne aveva 7. Nella vallata di Vorno tutti conoscono i suoi modi, gentili come il suo stile d’un’altra epoca, e la storia mai scritta («perché è vera, non è mica un romanzo», fuga i dubbi agli scettici) della sua presunta morte, avvenuta nel 1953 a Viareggio.

A chi le fa visita nella sua casa di Badia di Cantignano, mostra trofei e pergamene dei concorsi letterari e le foto da ragazza: «Mi chiamavano la Bella; in pochi conoscevano il mio nome», ammicca senza darsi arie. Il rossetto non è mai assente sulle sue labbra che riannodano a parole i fili del tempo, mentre sbatte le palpebre colorate di verde metallo e una linea nera di eyeliner e il mascara sottolineano il suo sguardo, ancorato ai ricordi e pieno di presente.

Fedora, cosa le accadde nel 1953?

«Sono morta per quattro ore. Il medico aveva già firmato il certificato di morte, mentre una suora, assieme a mia cugina che faceva la levatrice, si era preoccupata di vestirmi e di truccarmi. Ero nella bara, pronta per essere portata all’obitorio, quando a un certo punto aprii gli occhi. Vidi la suora davanti a me che recitava il rosario. Le sorrisi. Lei proruppe in un urlo di paura, terrorizzata. Poi gridò al miracolo, mettendo in subbuglio la clinica di Viareggio dove ero ricoverata».

Come... morì?

«Setticemia. Avevo perso per un aborto spontaneo il mio ultimo figlio; ne avevo già 3, il più grande era di 6 anni. Ero nel fiore degli anni, ne avevo 31; dopo l’aborto, mi lasciarono il feto in pancia per cinque giorni, quando si decisero ad operarmi, per asportarlo, fu troppo tardi. Mi venne la setticemia e morii. Per quattro ore mi credettero morta, tanto che fui vestita e truccata pronta per essere chiusa nella bara. Al mio risveglio, il ginecologo mi operò d’urgenza incredulo di quanto aveva visto».

E poi?

«Ordinò che nei giorni successivi non mangiassi né bevessi nulla eccetto champagne. In effetti c’era di che brindare! Vennero in tanti a visitarmi mentre ero ancora ricoverata, stupiti e pieni di curiosità. Seppi di essere stata morta dai racconti di mia cugina che mi era stata accanto. Ma non riuscivo a crederci, finché non avvenne un fatto molto singolare».

Cosa?

«Molti anni dopo, iniziai a soffrire di gastrite ulcerosa (oggi, invece, grazie a Dio soffro solo di qualche vertigine). Neppure il Maalox mi aiutava. Un giorno venne a Lucca un luminare spagnolo di iridologia, dal quale mio figlio volle farmi visitare. Il suo nome era Cristobal. Credo avesse facoltà extrasensoriali, perché appena mi guardò negli occhi, mi urlò: ‘Come fai a esser qui? Tu sei morta!’. Rimasi di sasso. Poi volle conoscere ogni dettaglio e alla fine mi disse: ‘Il Signore ti ha regalato una vita’ e aggiunse alcune predizioni che, nel tempo, si avverarono. Ho sempre voluto pensare che fosse un angelo mandato da Dio. Non a caso si chiamava Cristobal».

Cosa vide da morta?

«Nulla. Quando sento i racconti di quelli che fanno esperienze oltre la morte e vedono luci, sentono profumi eccetera, non ci credo. Io vidi tutto spento».

Nei suoi 93 anni, ha vissuto anche più di due vite: è stata commerciante, poi sigaraia, infine poetessa…

«Sì. Lasciai gli studi a 18 anni, per sposarmi. E’ il mio più grande rimpianto. Il direttore mi ripeteva: ‘E’ un delitto che lei non continui’. Ero molto portata per studiare. Venni a Lucca da Nozzano San Pierino, dove nacqui a Villa Bandiera, nel 1924, per aprire una merceria in via delle Beccherie. Dopo due anni mi presero in Manifattura, al gabinetto di chimica. Con il dottor Di Piero analizzavo le foglie di tabacco».

Com’era lavorare in Manifattura?

«Le donne erano considerate delle gran signore, perché era un lavoro sicuro, all’epoca. Foglie bionde per le sigarette, marrone scuro per i sigari toscani... ricordo ancora tutto. Controllavo quanta nicotina ci fosse nelle foglie e poi andavo a prelevare le sigarette per analizzarle. Se ci trovavo la pulce, cioè il tabacco che fuoriesce dalla sigillatura della cartina, richiamavo gli operai e fioccavano multe. Mi temevano».

Ha vinto molti premi letterari. Quando ha iniziato a scrivere?

«A sette anni, con grafia incerta, già scrivevo poesie. La neve era già venuta tre volte e rendeva difficoltoso lavorare. Pensavo agli operai di mio padre che andavano pagati: prelevavano i vernacchi, che poi venivano trattati per fare i cestini in cui mettere pane, uova... Quella neve mi ispirò. Mentre la maestra spiegava le divisioni a due cifre, io guardavo fuori e scrivevo. Mi vengono da sé. L’ultima l’ho scritta ieri».

E’ sempre circondata dai suoi familiari e da tanta gente, ma nei suoi scritti parla sempre della solitudine, perché?

«Perché in essa ho imparato a distinguere le sfumature del silenzio: quello della chiesa, dello Stato, del lavoro e quello della casa. Ho imparato il silenzio interiore dell’anima e quello misterioso e impenetrabile di Dio. A volte, ho più paura della solitudine che della morte».