
La linea di confine è quella del primo aprile. Da quella data ci dovremmo incamminare sulla strada che ci condurrà fino al ritorno alla normalità. Uno sguardo ottimistico che arriva dopo un bilancio di due anni complicati, difficili, a volte tragici. Proprio due anni fa uno dei primi contagiati dal Covid-19 fu il sindaco Alessandro Tambellini. Con lui oggi vogliamo ripercorrere quei momenti, ma anche pensare al futuro.
Sindaco, ricorda quei giorni?
"Fui avvisato che ero positivo dall’Asl, la mattina presto, il 10 marzo. Ero uno dei primi positivi al Covid".
E lei?
"Io detti una giusta importanza alla cosa, non ci prestai molto caso, mi dissi che dovevo stare un po’ a riposo. Poi le mie condizioni peggiorarono: ero in una stanza appartata all’ultimo piano della casa e siccome non miglioravo decisero di portarmi in ospedale. Avevo la febbre abbastanza alta e grande debolezza, una difficoltà a muovermi".
Quindi il ricovero al San Luca.
"Sempre con l’ossigeno, avevo una polmonite bilaterale e l’ospedale era completamente isolato. E’ stata un’esperienza abbastanza complessa, ma io non ho mai disperato, non ho mai avuto il timore di non farcela, anzi ho trovato un ambiente molto professionale".
Ricordo che disse che per sentirvi con infermieri e staff medico parlavate al cellulare prima che potessero entrare in camera. Tutto questo per il timore del Covid?
"Diciamo che le visite erano in presenza, ma capitava anche di sentirci per telefono. C’era una cautela tremenda, il rischio lì della diffusione della malattia diventava ampio. Erano accortezze che dovevano mantenere. Ci sentivamo con i mezzi che avevamo ed è stato utile far così".
Di cosa parlavate in ospedale?
"Il confronto era la condizione generale, si era nei primi tempi della malattia, ancora da scoprire largamente, eravamo nello stadio in cui si imparava come curarla. Era importante la sintomatologia, lo stato del paziente. Era importante anche provare con presidi sanitari opportuni per capire gli effetti che si avevano e io sono stato felice di essere uno di quelli su cui si è anche provato. Faceva piacere che su di me ci fosse anche una eventuale sperimentazione che poteva servire successivamente".
Ha avuto paura?
"Non ho mai percepito di essere realmente in pericolo di vita".
E con la famiglia?
"Con i figli e mia moglie ci sentivamo via telefono, sempre con notevole assiduità e partecipazione. Ma senza mai drammatizzare, senza arrivare a immaginare il dramma, la tragedia. Ci sono delle possibilità che possono avverarsi o meno, ma il tutto deve essere sempre guardato con grande realismo e oggettività. Io per formazione, anche personale, credo in chi si occupa a tempo pieno delle varie questioni: così come per fare una finestra vado dal falegname o per una ringhiera dal fabbro, così quando mi devo curare vado da un medico e la mia formazione mi spinge a credere nella ricerca in senso lato. Non ho mai creduto alle cose che stanno dietro, a tutto a quello di cui si favoleggia. Non posso far altro che ringraziare chi mi ha curato".
Poi a fine marzo il ritorno a casa.
"Torno a casa e per negativizzarmi ho dovuto fare circa 11 tamponi: allora c’era la regola che dovevano essere negativi due tamponi in successione. Sono tornato a pranzare con la mia famiglia a maggio perché non riuscivo a negativizzarmi".
Con il senno di poi, avrebbe mai pensato due anni del genere?
"Mio padre era del 1912. Mia madre del 1914. E loro mi raccontavano sempre dell’epidemia di spagnola. Nella nostra comunità, la corte qui, con gli anziani, queste cose erano narrate. Per me l’idea di una epidemia non è che fosse accontonata alla biblioteca con “I promessi sposi“. Era qualcosa che molti altri avevano vissuto e ce ne parlavano. Quindi ciò che è stato può ripetersi. L’importante sarebbe farsi trovare pronti. Per esempio sulla spesa sanitaria in Italia siamo rimasti a livelli dei primi anni Duemila. Abbiamo sacrificato molto la sanità territoriale. Per cui nell’epidemia si è visto come stabilire delle forme di tracciamento siano state particolarmente complesse. Da noi poi il San Luca ha resistito bene. E’ sull’ambito della programmazione delle previsioni per il futuro che dobbiamo poi collaudare un po’ la nostra attività perché la globalizzazione, il fatto che con un aereo si parta da un luogo distante migliaia di chilometri e in 7 o 11 ore si arrivi in un altro posto ha dimostrato come alcune situazioni non sono controllabili. Ha dimostrato come l’espansione di certe morbilità possa essere rapidissima e molto diffusa. Questo ha dimostrato anche come si debba sostenere i Paesi con maggiori difficoltà economiche perché la vaccinazione non può essere solo dei Paesi ricchi".
Cosa le ha lasciato questa esperienza?
"Che la nostra esistenza può modificarsi da un giorno all’altro. Poi il riflettere su ciò che conta realmente nella vita, troppo spesso inseguiamo quello che non è essenziale. Che bisogna uscire dal senso dell’individualità assoluta. Deve diffondersi sempre di più l’idea di una vita comunitaria che si sostiene vicendevolmente. Poi mi ha insegnato che bisogna essere pronti ad affrontare l’imprevisto. Non bisogna spaventarci di fronte alle difficoltà perché le difficoltà ci insegnano a come superarle".
Un occhio al futuro?
"Penso che il ritorno alla vita normale sia il desiderio di tutti. La vita ordinaria, culturale, dare senso anche all’economia perché se si ritorna al lavoro anche nella presenza dei luoghi si alimenta anche quel circuito economico che questo comporta e che vogliamo, sempre però avendo un po’ di accortezza, senza perdere di vista ciò che abbiamo passato. L’auspicio è questo; quest’anno rivedere un po’ di gente per i Comics è stata una meraviglia, ma bisogna avere ancora un po’ di attenzione. E non vedo l’ora che ritornino anche i concerti e il pubblico del Lucca Summer Festival".
Cristiano Consorti