SIMONETTA SIMONETTI
Cronaca

Avventurose sui pedali. Da miss Londonderry ad Alfonsina al Giro. Quante storie in rosa

La corsa che assegna la maglia del colore delle ”femminucce” insegna quanto è stato lungo e difficile per le donne superare certi stereotipi e luoghi comuni maschili nel mondo dello sport.

“Mamma perché il ciclista che vince il Giro d’Italia ha la maglia rosa? Non è un colore da femmine?”. La mamma sospira, attende un attimo e risponde: ”E’ stata la pensata di un giornalista sportivo, Armand Cougnet, che scelse quel colore perché uguale a quello della Gazzetta dello sport, cose da uomini lascia perdere“. Quella risposta non fu, tuttavia, essere molto convincente per lui, visto che quando aveva messo la felpa rosa di sua sorella, a scuola lo avevano canzonato e chiamato “femminuccia”, ma non insistette pensò solo che ai francesi era andata meglio, la loro maglia da campione era gialla!

Era l’anno 1931: La Gazzetta del 9 maggio 1931 annunciava la notizia per chiarire il motivo della scelta di un colore da sempre identificato di specifica appartenenza al genere femminile, con la seguente motivazione: “Istituisce, a somiglianza di ciò che avviene nel Giro di Francia, la maglia rosa, che tappa per tappa del Giro d’Italia sarà indossata dal corridore primo in Classifica”.

Qualche sommessa critica fu avanzata da alcuni Gerarchi del Partito Fascista che non vedevano riprodotto nel delicato colore della maglia il forte carattere delle popolazioni italiche.

Ci volle tanto tempo prima di arrivare a consentire alle donne di andare in bicicletta, prima che si abbandonasse l’idea che si trattasse di un atto scandaloso, indecente. Inforcare una bicicletta dava un senso di libertà e di autonomia, l’allontanamento fisico somigliava ad una fuga più o meno consapevole da un qualcosa o da qualcuno e questo era uno dei tanti motivi che alimentava i pregiudizi e la riprovazione verso quelle donne che andavano in bicicletta.

Si tratta di donne che, contro tutti i pregiudizi e i luoghi comuni, hanno deciso di montare sul sellino delle proprie bici e lanciare la loro sfida personale. Già nel 1897, gli uomini di scienza sostenevano che “il pedale poteva provocare la deformità del piede”. Addirittura, quando iniziarono a entrare in commercio i tandem a inizio ‘900 si decise, a seguito di un acceso dibattito, che le donne avrebbero dovuto occupare il sellino anteriore, per non mostrare il fondoschiena a sguardi indiscreti e scatenare le reazioni dei perbenisti. A parte i giudizi, le affermazioni stentoree di fonte medica che prevedevano danni e malformazioni fisiche il giudizio più spietato era quello della moralità.

Oggi questa cosa ci fa sorridere e nel contempo ci lascia l’amaro in bocca e ci addolora perché il pensiero va a quanto devono aver sofferto le donne nei tempi passati, ingiustamente condannate e ostacolate in tutto. Ritorna spontaneo il termine “audace” nella sua accezione riferita però solo al maschile ma che noi possiamo benissimo declinare al femminile: dal latino audax-acis, derivato di ‘audēre‘ ossia osare – definisce colui (colei) che non esita ad affrontare il pericolo e vi si fa incontro noncurante dei rischi. Audace è una persona coraggiosa, ma non solo: l’audacia implica una componente temeraria, spericolata; una sorta di spavalderia.

La storia è ricca di donne spavalde, audaci, caparbie e ostinate che fecero della bicicletta un mezzo di emancipazione e di affermazione dei propri diritti, cosa le spingeva a ribellarsi alle regole dettate dagli uomini. Tante motivazioni furono diverse a seconda del luogo in cui abitavano, del ruolo sociale che rivestivano, dell’ambito familiare che poteva limitarle, incoraggiarle e lasciarle libere di agire. Andare in bicicletta oltre a suscitare le reazioni dei medici, degli igienisti e dei benpensanti, richiedeva, per le donne, un modo diverso di abbigliamento, una frattura notevole per le prime che osarono infrangere i divieti e le riprovazioni e che abbandonarono le lunghe gonne ingombranti e pericolose.

Da un articolo di Pasquale Coccia, 13 ottobre 2020: un excursus, che diventa voce unanime contro le donne in bicicletta, dal congresso medico italiano del 1897, dove gli uomini di scienza sostenevano che "il pedale poteva provocare la deformità del piede" fino alla Gazzetta Ciclistica che denuncia ai propri lettori come le donne in bicicletta "si mostrano senza vergogna per la città" giacché era consentito loro di andare in bicicletta solo nelle zone agresti.

Un esempio: Annie ‘Londonderry‘ Kopchovsky fu la prima donna a fare il giro del mondo in bicicletta, sfidando le proprie capacità fisiche, le esigue risorse economiche e i molti pregiudizi di un’epoca vittoriana. Vestita in perfetto stile vittoriano dell’epoca, con una lunga gonna nera, una camicia avvitata, blazer e cappellino in paglia, Annie partì con una bicicletta Columbia e nessun allenamento alle spalle. Solo determinazione e ambizione riuscirono a portare Mrs. Londonderry con la sua bicicletta di 19 kg fino a Chicago. Che se ne parlasse come un’eroina o come una truffatrice, il nome Mrs. Londonderry divenne famoso e ad ogni nuova destinazione la giovane veniva accolta come una celebrità. Non mancavano i disappunti, i pregiudizi, i commenti spregevoli nel vedere una donna in bicicletta compiere da sola un simile viaggio. Inoltre Annie, per motivi di praticità, aveva abbandonato le ingombranti gonne con cui era partita. A New York, pronta per imbarcarsi per il porto francese di Le Havre, Annie giunse in pantaloncini a palloncino e maglia di lana aderente. E sì anche il vestirsi in modo ritenuto sconveniente per una femmina aumentò la disapprovazione sociale.

Tra le tante “avventurose” (perché furono veramente tante trascurate dalla storia) una in particolare assomma nel suo percorso di vita le motivazioni basilari comuni: Alfonsina Morini Strada, (n.1891 Riolo di Castelfranco Emilia) donna di bassa estrazione sociale, dotata di un forte senso pratico maturato con la necessità della sopravvivenza, incurante degli stereotipi sociali e dotata di una grande passione che nessuno e niente riuscì a spegnere e che partecipò al Giro d’Italia nel 1924.