"Soldi per ottenere i permessi di soggiorno". La Spezia, trappola per i bengalesi

La denuncia della Cgil: "Per lo stipendio sono disposti a subire vessazioni e illegalità. Spesso con l’aiuto di italiani conniventi"

Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)

Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)

La Spezia, 8 luglio 2021 - Nel 2019 il reddito pro capite del Bangladesh era di 1.850 dollari (circa 1.600 euro) all’anno. La leva del meccanismo è tutta quI. Qualsiasi stipendio che si riesce a mettere insieme in Italia, anche il più misero e ingiusto, anche se corredato da violenze e minacce, sarà sempre un capitale se rapportato al costo della vita di Dacca o di un altra località del Madaripur, la regione dalla quale provengono la maggioranza di bengalesi in città.

La dimostrazione arriva dalle testimonianze raccolte dalla Cgil e direttamente dal tribunale, dove nel maggio scorso si è chiuso, con una raffica di patteggiamenti, si è concluso il processo per lo sfruttamento, in regime di subappalto, della manodopera bengalese in alcuni cantieri per imbarcazioni di lusso. Durante il dibattimento erano emerse le cifre: circa 1.200 euro al mese, per turni di lavoro spesso di 14 ore e spesso dedicati alle lavorazioni più insalubri, come il trattamento e la pitturazione dell’acciaio degli scafi. Soldi, oltretutto, ottenuti a prezzo di umiliazioni e percosse.

«Stiamo parlando di una comunità che a Spezia conta circa mille persone", spiega Fabio Quaretti, segretario confederale della Cigl di La Spezia, diventato proprio durante l’inchiesta sul caporalato il referente dei lavoratori bengalesi e che proprio su di loro sta avviando nel sindacato una serie di progetti ad hoc. "Di base - continua Quaretti - è una comunità molto chiusa, che non frequenta persone di altra nazionalità. Le barriere culturali, ad iniziare da quella linguistica, sono difficili da superare".

Per fortuna, almeno in questo caso, la tecnologia dimostra di avere una qualche utilità. E infatti quando Quaretti raccoglie una denuncia o il racconto dell’incubo lavorativo di un cittadino benaglese ha sempre aperto il computer sulla pagina di Google Translate.

"Stiamo cercando traduttori, ma non è semplice in una realtà come La Spezia. E per un lavoratore la lingua è importante sia per capire la realtà, anche contrattuale, che si vive ma anche per una questione di sicurezza. Non comprendere, per esempio, dove si trova l’uscita di sicurezza, può essere molto pericoloso". Per battere questo ostacolo, il sindacato ha messo in piedi una scuola di italiano, presso il complesso di via Napoli e un’altra sta per essere avviata presso il circolo Arci Canaletto.

"Le difficoltà sono molte. Spesso infatti non solo non conoscono l’italiano, ma abbiamo di fronte analfabeti anche nella loro lingua". Viste queste premesse, lo spazio di integrazione è quindi molto ridotto. Ed è anche per questo che la maggior parte delle volte i bengalesi si trovano ostaggio di un apparato quasi mafioso, ormai ben oliato.

"Il sistema inizia direttamente nel loro Paese, con informazioni che passano tra conoscenti. Vengono quindi contattati degli intermediari che, dietro pagamento, di solito le cifre si aggirano sui 5mila euro, ma dipende dai casi, offrono un contratto di lavoro fittizio per ottenere il permesso di soggiorno. Soldi che il più delle volte costringono queste persone a indebitarsi, magari rinunciando per un certo periodo a una parte dello stipendio che guadagnano. Se il debito non viene onorato poi, il pericolo si sposta sui famigliari rimasti in Patria, dove i più esposti sono naturalmente i minori, che possono diventare una sorta di garanzia per il creditore".

Per raggiungere l’obiettivo di un lavoro ben pagato in Italia si affidano quindi a persone senza scrupoli che "purtroppo - sottolinea Quaretti - hanno dei corrispettivi in Italia, soprattutto in patronati conniventi che lucrano su questa situazione".

Arrivati qui e trovato un lavoro “vero“, c’è poi il problema della casa: "Qualcuno di loro riesce ad affittare una casa, spesso a prezzi molto alti e quindi subaffitta i posti letto che ha disposizione. Sei, otto persone in un appartamento che pagano almeno 300 euro al mese. Moltiplicati per 1000 sono un sacco di soldi, che non si sa che fine facciano. Per questo stiamo insistendo con il Comune per trovare una soluzione con le case popolari, significherebbe un problema in meno per loro e tanti soldi tolti all’illegalità. Purtroppo su questo fronte ci si scontra spesso con barriere politiche che vedono nello straniero un problema da evitare o da ostacolare".

Luca Tavecchio