
È ’Solo’ Brachetti "Giochi di prestigio? I primi insegnamenti durante il seminario"
di Marco Magi
Strabiliante, stupefacente, incredibile. Semplicemente Arturo Brachetti. Un sognatore per poter fantasticare, in un doppio appuntamento con ‘Solo’, stasera e domani sera, al Teatro Civico.
Far sorridere, far sognare. La sente come una missione?
"Da ragazzo i miei genitori mi mandarono in seminario perché ero un bambino buono e timido. Lì ho incontrato don Silvio Mantelli, il Mago Sales, che mi ha insegnato i primi giochi di prestigio e mi ha aperto un mondo. Mi resi conto di non avere la vocazione e lo dissi a don Silvio. Lui mi rassicurò dicendomi ‘Non è importante avere la vocazione, ma è importante avere una vocazione, che tu sappia qual è la tua’. È un messaggio che non ho più dimenticato e che tutt’oggi mi guida".
Perché la gente ha così bisogno delle (sue) illusioni?
"Tutti abbiamo bisogno di sognare, di immaginare, di costruirci universi paralleli che ci aiutino a vivere meglio la vita quotidiana. Pensate la signora che dichiara un’età più bassa di quella che ha, oppure quello che racconta i mirabolanti successi del figlio, o anche le bugie che ci raccontiamo ogni giorno. Sono tutti strumenti. Io credo che sia la realtà immaginata quella che ci renda più felici. La cosa più bella è quando, dopo lo spettacolo, vengono da me gli spettatori e mi ringraziano perché ho ridato loro due ore della loro infanzia e li ho fatti tornare bambini. Quella è veramente una straordinaria soddisfazione".
Magia, tecnica e tecnologia. Quanto quest’ultima può essere d’aiuto per la prima? E dove potrebbe portare?
"Può essere di supporto per sottolineare un aspetto o dare maggiore risalto a un effetto, ma l’artista è sempre al centro. In questo spettacolo ci sono degli effetti come il videomapping, che permette alla mia scenografia di cambiare velocemente, però lo spettacolo rimane sempre al centro del palcoscenico. Questo perché è il nostro software, quello che abbiamo in testa, che crea e fa la differenza, sennò sarebbero spettacoli di effetti speciali, ma dopo averli visti una o due volte non ci si stupirebbe più. Il teatro, invece, ha sempre al centro l’artista ed è quello che fa la differenza. Per di più dal vivo, dopo la pandemia siamo tornati a scoprire la bellezza di vivere le emozioni live".
Sempre in super forma, forte e asciutto. La dieta e gli esercizi sono cambiati negli anni? E il segreto, anche per continuare a sorreggere costumi davvero pesanti?
"Ho tre segreti in verità. Il primo è il Dna che mi ha trasmesso mia mamma, che a 86 anni è ancora scatenatissima: guida, si prende cura del suo giardino, viaggia, è sempre attiva. Poi c’è la dieta, che seguo diligentemente: faccio attenzione alla qualità di cosa mangio e misuro tutto secondo le indicazioni che mi ha dato la dietista (la stessa che aveva Cristiano Ronaldo, tra l’altro). E poi c’è la testa: sono curioso e soprattutto frequento i più giovani, quelli della mia età mi parlano solo di... prostata e mogli scappate!".
Un Peter Pan nel corpo di un 65enne, ma cosa è cambiato in lei e cosa è rimasto di quando era un ragazzo?
"Lo ha detto lei: mi sento Peter Pan, ma nel corpo di un 65enne. Cerco di vivere la vita con curiosità ma non mi stupisco più di nulla, però mi piace vedere lo stupore negli occhi degli altri".
Nel dietro le quinte, nel vostro meccanismo perfetto tipo box di Formula 1, qual è l’intoppo che ricorda come più significativo?
"Ce ne sono, perché gli incidenti di percorso capitano di frequente. Non sempre il pubblico se ne accorge, magari manca un dettaglio e devo ancora finire di vestirmi ma mezzo corpo è già in scena. Una volta sono caduto nella buca dell’orchestra e mi sono rotto un braccio. Volevano tenermi fermo per due mesi, ma ho trovato un chirurgo bravissimo che mi ha messo due viti e dopo 10 giorni ero già di nuovo sul palcoscenico".
Quando ha cominciato negli anni Settanta era l’unico, poi da una ventina d’anni hanno iniziato a copiarla altri trasformisti in velocità. Per lei cosa ha significato tutto ciò?
"Quando ho iniziato ero l’unico e a Parigi mi presero subito, perché dai tempi di Fregoli nessuno aveva mai più visto il trasformismo sul palcoscenico. Per me è un modo per raccontare una storia, portare il pubblico con me a esplorare un mondo. Per esempio nello spettacolo c’è un momento in cui racconto le fiabe dell’infanzia, da Cappuccetto Rosso che esce dalla pancia del lupo, fino a Cenerentola passando per Frozen, Biancaneve e Shrek. Non cambio solo d’abito, ma entro in un personaggio, lo porto in vita per qualche minuto e poi entro in un altro per raccontare un’intera storia che vivo insieme al pubblico. La differenza sta in cosa si vuole raccontare, oggi molti si limitano a un cambio di colore, passano dal rosso al verde, poi al blu. Sono bravissimi per carità, ma sono la storia e le emozioni che viviamo a fare la differenza".
Un adolescente con problemi di autostima, cresciuto con la magia. Oggi cosa pensa di quei momenti?
"Riguardandomi alle spalle provo un po’ di tenerezza per quel bambino magrino, sfigatino, che non sapeva giocare a pallone, ma che è riuscito a trovare la sua strada".
La ricordiamo due anni fa al Teatro Civico con ‘Pierino, il lupo e l’altro’. In quello spettacolo una dedica a De André nel pezzo finale di quick painting. Perché questa scelta?
"De André è stato uno straordinario poeta. Ho voluto rendergli omaggio e ricordare a tutti noi che una canzone come la ‘Guerra di Piero’, dopo più di 50 anni, è ancora attualissima. Mi è sembrato un bello spunto di riflessione da lasciare agli spettatori".
Infine, magari, chissà, fra 20 anni, deciderà di non fare più spettacoli. E dei suoi segreti cosa ne sarà? Ci ha già pensato?
"Non ho dubbi, li porterò via con me!".