Georgofili, 25 anni dopo. "Così una bomba ha segnato le nostre vite"

La cronaca della notte di 25 anni dell’allora capocronista de La Nazione, Umberto Cecchi. MANDA IL TUO RICORDO a [email protected]

La strage di via dei Georgofili (Pressphoto)

La strage di via dei Georgofili (Pressphoto)

Firenze, 24 maggio 2018 - Nella notte fra sabato e domenica ricorrono i 25 anni dalla strage di via dei Georgofili. L'attentato di mafia, attuato fra il 26 e il 27 maggio 1993 con un'autobomba carica di 277 chili di esplosivo parcheggiata a due passi dagli Uffizi, provocò la morte di cinque persone. La famiglia Nencioni fu cancellata: marito, moglie e le due figlie, una delle quali, la piccola Caterina, aveva meno di due mesi. Pubblichiamo un ricordo di quella notte scritto dall'allora capocronista della Nazione, Umberto Cecchi.

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di UMBERTO CECCHI

A volte capitavano sere così. Tutto filò liscio e il giornale era pronto per girare. Me ne uscii più presto del solito, fumando una sigaretta: aveva un sapore pessimo. Con me c’erano i colleghi Amadore Agostini, Marcello Mancini e Toni Capitanio. Avevamo voglia d’una bistecca ma data l’ora ci accontentammo di wantong e anatra alla pechinese al ristorante cinese di via della Condotta. Poi quattro passi in libertà in Piazza della Signoria, prima di rientrare al giornale. Firenze va vista a mezza luce, quando siamo noi e lei a tu per tu, e i turisti se ne sono andati lasciandosi dietro i loro rifiuti. Passeggiammo su e giù lungo il Piazzale degli Uffizi. Arrivati alla Torre del Pulci mi accorsi di aver dimenticato il telefono al ristorante e ci avviammo per riprenderlo. Una volta recuperato era quasi mezzanotte, la torre d’Arnolfo spiccava proterva contro un cielo giallastro e la Loggia dei Lanzi era un miraggio di luce e penombra.

C’era una quiete assoluta in quella notte che segnava il passaggio dal 26 al 27 maggio. Toni parlava di politica, Amadore Agostini sembrava un cane da punta: il cronista di nera era inquieto. Fiutava l’aria. Non eravamo arrivati alla macchina che un boato improvviso scosse la città. Ci stordì. Non riuscimmo a capire cosa fosse successo: forse una fuga di gas. Una bomba disse Capitanio. E’ una bomba. Amadore corse via tornando da dove eravamo venuti e noi facemmo la stessa cosa correndo verso il fumo e i bagliori che venivano dagli Uffizi. La città si era destata, la gente si chiamava dalle finestre, ma in piazza non c’era ancora nessuno. Il fumo e la polvere avevano creato una nebbia densa, di un odore nauseante aspro. Arrivati agli Uffizi ci rendemmo conto del dramma.

Uno scatto d’epoca subito dopo l’esplosione
Uno scatto d’epoca subito dopo l’esplosione

Sentivamo lo strazio delle sirene lontane, le grida della gente, arrancammo fra macerie e spezzoni di travi in fiamme e trovammo Amadore che già spostava delle pietre in mezzo a un cumulo di rovine che erano straripate sulla strada fin oltre il ristorante l’Antico Fattore. La torre dove aveva sede l’Accademia dei Georgofili non esisteva più. In un attimo fu il caos. Arrivarono i vigili del Fuoco, arrivarono ambulanze, polizia e carabinieri: l’area fu isolata e tutti, noi compresi, lavoravano alla ricerca illusoria di possibili sopravvissuti. I bagliori delle fotoelettriche davano maggior corpo alla povere e allo sgomento. Creavano fantasmi. Si cercava di capire cosa fosse successo e la prima risposta fu il gas, ma la polvere nell’aria aveva un odore diverso, e qualcuno parlò di esplosivo. Ma erano voci che improvvise ammutolivano, restava solo il rumore delle pietre delle pale, quello non era il momento di parlare e tutti seguitavano a cercare fra le maceria e a tentare di entrare in quel che restava della costruzione distrutta. Non si sapeva se dentro la torre abitasse qualcuno.

Poi fu subito chiaro di sì, come un pugno allo stomaco. Fra calcinacci, antiche pietre, vecchie piante tranciate, tegole sparse, finestre e porte dilaniate, mobili bruciati e deformati, comparvero i morti. Straziati. La polvere e il sangue li aveva resi come smarriti per caso in quella scena che aveva per fondale macerie crudamente illuminate a giorno. Avvertii la nausea assurda della paura, l’odore della morte, l’angoscia dell’inconosciuto. La mancanza del pudore che è in ogni tragedia. Che era successo a quella gente? Cosa alla vecchia torre? Perché? Ma niente fu simile a ciò che seguì: all’improvviso cessò ogni rumore, il silenzio ci fu addosso terribile, dalle macerie uscì un vigile del fuoco, un uomo che mi parve enorme, disperatamente solo, quasi inumano: fra le braccia, portato con una delicatezza estrema, come se temesse di potergli far male, quasi a volerlo mostrare al mondo intero e a Dio stesso, aveva il corpo senza vita di un neonato.

Mi sembrò così piccolo, immobile e indifeso, così abbandonato da pensare che fosse una bambola. Avevo visto altri bambini morti, ma quello era apparso così, improvviso, in un mondo di vivi, in una notte tiepida di maggio, nella dolcezza d’una città d’arte dove niente faceva presagire a una sua possibile morte violenta prima ancora di aver cominciato veramente a vivere. Il vigile, il volto difeso dal suo elmo che non riusciva a nascondere l’emozione, traversò le macerie con passo lento, come se portasse un peso enorme, e consegnò il fagottino a un medico. Nessuno di noi, in quel momento sapeva che quella creatura era già orfana di padre e di madre. Che fra quelle macerie c’era anche il corpo della sorellina di nove anni. Anche lei era avvolta in un lenzuolo di polvere grigia chiazzato da macchie di sangue. Anche lei immobile, sola, lontana, sotto un cielo che a un tratto mi parve indifferente. Ma come fa il cielo e come molti di noi uomini a scrollarsi di dosso il dolore?

Era la notte che segnò il passaggio dal 26 al 27 Maggio del 1993: Francesco Carrassi dalla redazione chiedeva aggiornamenti di continuo, stavano ribattendo un’edizione speciale: stavano ricostruendo le esistenze dei morti per raccontarle ai lettori. Cercavano di fare i conti del costo di quella esplosione, fra vite umane e capolavori danneggiati agli Uffizi e l’antica torre distrutti dalla demenza di mafiosi imbecilli. Ho ancora viva l’immagine di Caterina: quel fagottino in braccio al vigile del fuoco era una bambina, un corpicino straziato di appena 50 giorni.

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