Mostro di Firenze: Signa, il delitto dei misteri

A mezzo secolo dalla morte di Locci e Lo Bianco, quell’omicidio resta un rebus. A Castelletti la soluzione dell’enigma

Salvatore Vinci (archivio storico New Press Photo)

Salvatore Vinci (archivio storico New Press Photo)

Firenze, 21 agosto 2018 - La sera del 21 agosto, Barbara uscì di casa, assieme al figlio Natalino. Ad aspettarli, in una caldissima Lastra a Signa, c’era un amico particolare di mamma. Il marito di Barbara, Stefano Mele, lo conosceva come Enrico, ma in realtà si chiamava Antonio Lo Bianco. Un bel tipo, siciliano, sposato con figli. Neanche Barbara, nonostante il matrimonio, aveva difficoltà ad accompagnarsi ad altri uomini, e Stefano non si metteva mai neanche troppo in mezzo. In paese, erano sulla bocca di tutti. Ma questo non impedì di andare al cinema, quella sera. Tutti e tre, «Enrico», Barbara e il piccolo Natalino, sei anni e mezzo, si avviarono verso l’Arena Michelacci, la sala di Signa. Alla fine del film, rimontarono sulla Giulietta ma non tornarono a casa, a Lastra a Signa. Natalino aveva sonno e si stese sul sedile posteriore. Il Lo Bianco sapeva che appena fuori dall’abitato, vicino al cimitero, a Castelletti, con il bambino che dormiva, potevano stare un po’ in tranquillità.

L’amore clandestino, quella notte di cinquant’anni fa, non si consumò, però. Lo interruppero otto colpi, sparati da una pistola calibro 22. Uccisero i due amanti mentre erano sul sedile del passeggero. Barbara scivolò così al posto di guida, con il vestito sollevato a scoprire l’inguine, con indosso la sottoveste e la biancheria intima. Antonio lo ritrovarono supino sul sedile del passeggero della sua Giulietta, con le mani che reggono i pantaloni come nell’atto di chi vuole abbassarrli o calzarli.

I carabinieri avevano rintracciato quella macchina, parcheggiata in campagna, con una freccia accesa che lampeggiava, grazie alle indicazioni del piccolo Natalino. Già perché il figlio di Barbara si era svegliato di soprassalto, si era accorto che la mamma e Enrico «sono proprio morti» e ha camminato nello sterrato per diverse centinaia di metri, fino a una casa, illuminata da un lampione, in cui abita un muratore. Chi poteva avere ammazzato i due amanti, risparmiando il bambino, se non il marito tradito?

Le indagini dei carabinieri di Signa puntarono dritte su Stefano Mele. Era un manovale di origini sarde, un carattere buono che rasentava l’inettitudine. Interrogandolo, si aprì uno spaccato su vizi e perversioni all’interno di un vero e proprio «clan» di immigrati dall’isola di cui Mele era l’anello debole. Sua moglie Barbara, invece, disinibita e molto più giovane di lui, era una preda ambita, contesa. Così, accuse e sospetti, rimbalzarono tra i suoi amanti conclamati, fratelli in competizione come Francesco e Salvatore Vinci. Mele li accusò tutti, a rotazione. Disse pure che Salvatore lo aveva accompagnato e munito di una pistola. Ma i Vinci avevano degli alibi e Mele chiese perfino scusa. Alla fine si prese la colpa.

Il manovale venne condannato a 14 anni, il figlio Natalino finì all’istituto Vittorio Veneto, a villa Rusciano, senza mamma e col papà detenuto. Su quel delitto non proprio perfetto, calò il sipario. Alla fine, l’onore era stato salvato, anche se nelle ricostruzioni non tornava nulla. Come aveva fatto Mele, che non sapeva nemmeno guidare una macchina, a seguire la Giulietta fino a Castelletti? Chi gli aveva dato la pistola? E Natalino, ha davvero camminato per quasi tre chilometri da solo, al buio? Dubbi che tornarono prepotentemente in gioco quando si scoprì, nell’estate 1982, che la pistola misteriosa di Castelletti era quella del mostro. E allora gli inquirenti tentarono di riabilitare quella ricostruzione zoppa, convinti che risolvendo il rebus del 1968, si sarebbe sciolto l’intero mistero. La soluzione non è stata trovata, e infatti, 50 anni dopo, quel delitto resta la chiave che potrebbe aprire la cassaforte dei segreti di otto duplici omicidi.

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