Emergenza coronavirus: la notte di Firenze, tra solitudine e bellezza

Viaggio nella città vuota: strade e piazze sono come proiettate in un'altra dimensione

Firenze deserta (Gianluca Moggi / New Press Photo)

Firenze deserta (Gianluca Moggi / New Press Photo)

Firenze, 21 marzo 2020 - Percorro prigioniero di una solitudine medioevale la via delle Terme. L’oscurità, un’oscurità che a Firenze non avevo mai conosciuto, fatta eccezione per i giorni dell’alluvione, ma allora c’era gente per le strade, c’erano voci, richiami, preghiere e bestemmie che in Toscana sono come preghiere, come un protervo coinvolgere Dio nelle cose degli uomini.

Ora no. Solo sussurri. Via delle Terme è pressoché deserta, solo qualche ombra, le porte delle case, dei ristoranti, e le vetrine dei negozi sono sbarrate, fluttuo in un nulla ora angosciante ora quasi piacevole e ho come compagni invisibili amici di un tempo che non vedevo da anni e ritrovo qui, muti: fantasmi dei giorni andati.

Non avevo mai provato una solitudine così: neppure il giorno in cui mi portarono a visitare Jallabia, una cittadina fra Iraq e Iran bombardata coi gas nervini, dove le mura erano intatte e gli abitanti erano morti. Ma Firenze, penso puerilmente, Firenze non può morire. Firenze è il mondo.

E forse questo mondo solitario neppure mi dispiace, è più rispettoso della caciara. Mi arrivano suoni ai quali non eravamo più avvezzi: il tocco d’una campana che viene da Oltrarno, un anacronistico suono di campanello di bicicletta, uno scalpiccio veloce, una voce di donna che chiama e un’altra, quasi soffocata, più distante, che risponde. Rari brontolii di motori. Gente che va, silenziosa. Rara. Emozioni perdute.

Firenze disegnata dai bambini raccontava una vecchia, bella canzone di Vallesi, ho il magone, ricerco la mia infanzia fra mura a bugnato che non vedo quasi, ma immagino, in questa città disegnata oggi dagli incubi di ciascuno di noi: vetrine spente, arcobaleni di neon spariti nel nulla, Ponte Vecchio senza neppure l’ombra di un fantasma giapponese predatore d’immagini.

In piazza del Limbo mi siedo a terra con le spalle poggiate alla porta della chiesa che custodisce le schegge del sepolcro di Cristo, quelle che servono a Pasqua per accendere la Colombina, i cosiddetti “sassi“ portati da Carlo Magno fin qui, nell’800. Avremo una Colombina? La piazzetta è deserta e in questa penombra chiudo gli occhi in attesa di sentire il pianto dei bambini non battezzati sepolti qui sotto secoli fa.

Ho attraversato la città da piazza Beccaria, scendendo lungo Borgo La Croce che si infila verso il centro come una ferita fra le case: la vecchia bancherella dei “miei“ libri usati è sparita. A Borgo degli Albizzi penso alle coccole fritte della mia infanzia; vorrei bussare alla Casa Massonica, ma anche quella è buia, come buie e abbandonate sono le botteghe di via del Corso, assalite di solito da fameliche orde di acquirenti vogliosi d’avere il ricordo d’un po’ di città.

Piazza della Repubblica è una gialla macchia di solitudine: mi sembra di intravedere Papini e Giuliotti discutere animatamente di religione, ma è solo una mia fantasia, una ricerca di compagnia. Una buona compagnia l’avevo trovata nel piazzale degli Uffizi dove gli spiriti liberi, i fattori di Firenze scesi dalle loro nicchie, giocavano a carte in un silenzio assoluto, da mimi.

Tacevano anche i chiacchieroni come il Machiavelli, Francesco Ferrucci o il Redi che confutò la teoria della nascita spontanea di esseri viventi dalla materia inanimata. Fra cotanto senno muto, soltanto Dante citava se stesso recitando il canto d’Ulisse e invitando tutti a “seguir virtute e canoscenza”.

Ma nessuno sembrava ascoltarlo. Poco più là ai piedi del David che da secoli sfida il tempo e la bellezza, due giovani si baciano con un trasporto eccessivo pei momenti che corrono, che impongono un metro di distanza fra due corpi, innamorati o no. Loro sembrano apprezzare tanta solitudine.

La torre d’Arnolfo, guardinga, si erge come un enorme gendarme e dà l’impressione che come il campanile della Badia e quello di Santa Croce cerchino d’arrivare al cielo per richiamarlo all’ordine. La piazza ha una sua meravigliosa tragicità: è la gran quinta che si apre sulla storia e che sembra dire che ci vuol altro per spengere Firenze. Il Savonarola l’aveva intristita, ma fu una cosa passeggera, penso poggiando i piedi sulla pietra che ne ricorda l’esecuzione: lo zittirono per sempre anche se oggi forse qualche sua predica non farebbe male.

In questa mia solitaria via crucis notturna fra il deserto della storia difeso solo dalle mura delle case, voglio pensare che una volta sconfitto il coronavirus avremo bisogno di rieducare noi stessi. Rendersi conto che Firenze non è una città da svendere in un trionfo di pizze al taglio a un’orda di turisti, ma da proteggere.

Una città così forte, ma nel contempo anche così delicata da aver bisogno d’amore. Una non città fluttuante fra l’essere e il non essere, dove anche le ombre si scansano, una città quasi senza vita apparente, con rare voci e suoni soffocati, come se la gente avesse paura di destarla da questo suo torpore, può portare ai limiti della realtà, spingere a ricercare la sua storia e la sua gloria.

Può uno sgorbio di virus, una microscopica pallina piena di escrescenze, brutta e rugosa, interrompere la storia, dare alla vita di uomini e cose una precarietà incombente come una sentenza? Inventarti dentro una solitudine fatta d’ansia? Un vecchio amico professore al quale avevo chiesto di accompagnarmi, mi ha detto che negli ultimi mesi di guerra pur nella loro tragicità la città era più viva di adesso. Aveva un’anima che oggi non c’è più.

È davvero così? Seduto in piazza del Limbo penso a quest’anima che non c’è più. Non so se sia vero: stasera Firenze mi è sembrata una città con un’anima a brandelli, un’anima dolorosa come d’una creatura abbandonata ma non trovo la risposta: un agente con mascherina sbucato da nulla mi dice che lì non si può dormire, di andarmene a casa. Non posso gli spiego, aspetto di sentir piangere i bambini seppelliti qui sotto, un pianto liberatorio. Mi guarda perplesso, poi risoluto: lei è ubriaco. Se ne vada o la sbatto dentro.

Mi sposto sui Lungarni fra i rari fantasmi che evito e mi evitano. Seduto fuori dall’Harry’s Bar buio e sprangato, ho nostalgia della sua torta di mele. Aspetto che fra le rare ombre in transito ci sia almeno uno studente americano ubriaco, che, come poeta Dino Campana, "canti amore alle persiane", ma non c’è neppure quello. Laggiù lontana, la macchia buia delle Cascine è un mistero inquietante. Il bosco delle favole dell’infanzia. Non mi sono mai sentito così disperatamente fiorentino. Così solo.

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