REDAZIONE FIRENZE

L'omicidio di Duccio Dini. "Non volevo uccidere. E ho chiesto scusa"

Al processo, parla il conducente della Volvo che investì il 29enne. "Ho scritto una lettera alla famiglia". Scarcerato il settimo rom

Una delle auto coinvolte nell'inseguimento mortale. Nel riquadro la vittima

Firenze, 4 dicembre 2019 - «Stavo inseguendo Rufat Bajram perché uscendo dall’Esselunga mi aveva urtato con la sua macchina e non avevo capito il motivo. E dopo l’incidente, sono corso al campo del Poderaccio perché soffro di emofilia e dovevo subito prendere un farmaco. Non sapevo che ci fosse stato un morto».

Il primo a parlare, dei sette rom accusati dell’omicidio di Duccio Dini, il 29enne investito e ucciso in via Canova durante il regolamento di conti fra famiglie rivali nel giugno dell’anno scorso, è Mustafa Remzi, 21 anni. Per il pubblico ministero, Tommaso Coletta, il conducente della Volvo spinse sul pedale dell’acceleratore prendendosi il rischio che potesse succedere ciò che è poi successo. Ma lui, invece, dice di essersi fatto prendere la mano, di aver perso il controllo di una situazione che invece pensava di sapere domare.

Toccherà alla corte d’assise orientare la questione. Ma nel corso dell’esame dell’imputato Mustafa Remzi, si cristallizzano alcuni dettagli mai emersi prima. Uno è che dal carcere, ha scritto una lettera di scuse alla famiglia Dini. Lettera che i genitori della vittima non hanno mai aperto, alla cui acquisizione si sono opposti i legali e il pubblico ministero, ma il giudice D’Isa l’ha invece aggiunta agli atti. L’altro riguarda la collocazione di Mustafa Remzi sull’auto «assassina». «Mio nonno non c’era, ero io alla guida», ha ripetuto il più giovane degli imputati, ricostruendo anche il momento in cui ha deciso di andare dai carabinieri a dire che era lui il conducente della Volvo che al semaforo tamponò l’auto di Rufat.

«Non dormivo e non mangiavo più. Sono andato prima in procura poi dai carabinieri: avevo la valigia perché convinto che, dopo essermi costituito, mi avrebbero arrestato». Invece, quel giorno se ne tornò a casa e la misura è arrivata qualche settimana dopo. Ma non riguardava ancora il terzo occupante dell’auto, Amet Kamjuran, indicato dallo stesso Mustafa quel giorno ai carabinieri in Borgo Ognissanti: era seduto sul sedile posteriore, sono state trovate le sue tracce di dna anche se in punti non esattamente compatibili con la posizione riferita dagli imputati. Ieri, anche Kamjuran è stato esaminato. Ha smentito che fosse lui ad impugnare la mazza da baseball che viene vista in un frame di un filmato delle telecamere, altra prova, per l’accusa, che il commando voleva far male. Inoltre, dall’altro ieri, Kamjuran (difeso dagli avvocati Marco Fabiani e Marianna Greco) è ai domiciliari. Oggi dei sette rom sotto accusa, non c’è più nessuno a Sollicciano. Nella prossima udienza (fissata il 17 dicembre) saranno sentiti gli ultimi tre imputati. Antonio Mustafa, Emin Gani e Amet Kole. Mustafa Dehran (che era seduto sul sedile del passeggero anteriore della Volvo) e Amet Remzi ieri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.