
Marco Cappato, attivista e tesoriere della fondazione Luca Coscioni, durante il deposito delle firme per l’ultimo referendum sull’eutanasia legale nel 2021
Mentre da sette anni gli appelli a legiferare sul suicidio assistito, rivolti dalla Corte costituzionale al Parlamento, rimangono lettera morta, il Paese reale, tra battaglie legali e piccole conquiste, va avanti caso per caso. Il diritto sulla carta c’è ma la sua diversa applicazione sul territorio nazionale determina una disparità di trattamento inaccettabile. E nel silenzio della politica, l’8 luglio, con l’attesa sentenza della Consulta sul caso di Libera (nome di fantasia scelto da una 55enne toscana affetta da sclerosi multipla progressiva, completamente paralizzata e mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale), l’Italia si avvia – con tutta probabilità – a compiere anche il passo successivo: consentire a coloro che hanno i requisiti per accedere al suicidio assistito di ricorrere all’eutanasia, nel caso in cui non possano autosomministrarsi il farmaco.
LA SITUAZIONE
Oggi una persona pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, dipendente da trattamenti di sostegno vitale – quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale ma anche procedure come l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali compiute da personale sanitario o da caregivers – può decidere di rifiutare il mantenimento artificiale in vita. A quel punto, in uno scenario in cui – come dice Mina Welby – "l’ultima guarigione è morire", può fare ricorso alla sedazione palliativa profonda e continua, un accompagnamento a una morte naturale ma più lenta, o al suicidio assistito. Una richiesta, quest’ultima, alla quale, nella maggior parte dei casi, segue un iter talmente lungo e complesso da svuotare tale diritto.
LE TESTIMONIANZE
"Vediamo quante persone, con sofferenza, iniziano questi percorsi per la verifica delle condizioni e assistiamo a dinieghi a cui si presenta opposizione – racconta Filomena Gallo, avvocata, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni –. I tempi, molto spesso, sono troppo dilatati: Federico Carboni, nelle Marche, ha atteso due anni; Laura Santi, in Umbria, quasi tre. Entrambi dopo essere ricorsi ai tribunali. Quando una persona malata vive una sofferenza che reputa intollerabile arriva a un punto in cui dice ‘basta’ e fissa una data oltre la quale non vuole andare, questo tempo assume una valenza diversa".
I TEMPI D’ATTESA
Vanno da pochi mesi a diversi anni, a seconda delle regioni. "Ci sono differenze territoriali relative soprattutto ai tempi necessari a ottenere dal Ssn le verifiche delle condizioni previste per accedere al fine vita assistito. Tempi molto lunghi in Campania e nelle Marche. Spesso – spiega Gallo – per la persona malata siamo costretti a inviare diffide per le verifiche e non sempre le commissioni mediche sono aggiornate sull’interpretazione del trattamento di sostegno vitale data dalla Corte costituzionale". È il caso di Sibilla Barbieri, malata oncologica terminale: la commissione medica non ha accolto la sua richiesta fatta a Roma nonostante fosse dipendente da ossigeno e da una corposa terapia del dolore. Per lei, come in altri casi dal 2022 ad oggi che hanno determinato disobbedienze civili, l’unica via per porre fine alle proprie sofferenze è stata quella di recarsi in Svizzera con l’aiuto di Marco Cappato.
I RICORSI IN TRIBUNALE
"In Friuli Venezia Giulia, in un caso, per ottenere dall’azienda sanitaria le verifiche previste per l’accesso al suicidio assistito è stato necessario l’intervento del Tribunale di Trieste. In Lombardia, come in altre regioni, – prosegue Gallo – non c’è stata disponibilità volontaria di assistenza dal punto di vista medico per la data individuata. E, in diversi casi, le persone, per non dover attendere, hanno fatto ricorso a un medico privato. In Toscana le difficoltà per l’erogazione del farmaco sono state superate dopo l’entrata in vigore della legge regionale".
RISCHIO CLANDESTINITÀ
"Moltissime persone, pur soddisfacendo i quattro requisiti previsti per accedere al suicidio medicalmente assistito, non hanno fatto in tempo a esigere questo loro diritto. Queste attese pesantissime, per i malati e per le loro famiglie, – afferma Marco Annoni, coordinatore del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi – spesso spingono alla clandestinità. Perché anche se non c’è la volontà politica di regolarlo, il fine vita in Italia avviene ugualmente. Avviene quando si trova un medico compassionevole che, come atto di pietas nei confronti di chi soffre, va incontro ai desideri della persona e dei suoi cari". Medici che rischiano fino a 15 anni di carcere per omicidio del consenziente. Un "movimento sott’acqua che lavora in maniera clandestina" del quale raccontava già oltre 10 anni fa Umberto Veronesi.