Almanacco del giorno / 25 novembre 2020, muore Maradona, l’ultimo re di Napoli

Pelè lo salutò così: “Un giorno in Paradiso giocheremo nella stessa squadra”

Diego Armando Maradona

Diego Armando Maradona

Firenze, 25 novembre 2021 - Dici Maradona e pensi a Napoli invece che alla sua Buenos Aires. Pronunci il suo nome e subito vengono in mente gli anni meravigliosi e folli passati all’ombra del Vesuvio. All’amore collettivo di una squadra che stava per retrocede, se non fosse stato per la magia di quel condottiero in pantaloncini bianchi e maglietta numero 10, che la prese per mano per accompagnarla alla gloria.

Sapeva che tutti gli occhi del San Paolo erano per lui: da una sua giocata, da una sua magia, da un suo gol dipendeva la felicità di milioni di persone, l’unica di una giornata e forse di una vita. Diego, vincitore dove non si era vinto mai, era la grande rivalsa dei tifosi azzurri sulla Juve di Platini come sul Milan di Sacchi. Il suo personaggio, caliente e guascone, molto genio e parecchio sregolatezza, si sposava perfettamente con lo spirito e le contraddizioni di una Napoli baciata dal sole e sommersa dall’ombra, dove i sogni si giocano al lotto e l’impossibile è a portata di mano. Si trattava di portare alla vittoria non solo una tifoseria, ma un’intera città. Ai compagni negli spogliatoi dispensava consigli e coraggio prima di ogni partita, e loro sapevano che a guidarli in campo, senza mai risparmiarsi, c’era il migliore di tutti.

I suoi allenamenti - ricorda chi dagli spalti o a bordo campo l’ha visto palleggiare e riscaldarsi - già valevano il prezzo del biglietto. Nell’album dei giorni indimenticabili, c’è quello del primo scudetto, con una Napoli addobbata a festa, come mai s’era vista e forse mai più si vedrà. Le strade, le piazze, le case, i vicoli, i balconi: tutto come quelle magliette indossate da ogni napoletano in quei giorni: colore del cielo, colore del mare.

Per spiegare ai più giovani il suo talento, basterebbe una sola partita, quell’Argentina-Inghilterra del Mondiale in Messico del 1986, poi vinto dalla Seleccion. Un match che arrivava con l’ombra della guerra delle Falkland, o Islas Malvinas, combattuta tra il Regno Unito e l’Argentina. Diego, come i suoi connazionali, non accettava quella ‘sconfitta’ per quell’isola vicina ma in mano straniera. E così confezionò la vendetta perfetta, con quel tocco di mano beffardo nel primo gol e il genio assoluto nel secondo. Il risultato? Stadio in estasi e inglesi in ginocchio.

 

Chi era lì, ricorda che le sue gambe quel giorno brillavano come se fossero state verniciate di fresco, per l’occasione. La palla gli obbediva come stregata. Pochi minuti prima aveva beffato l’Inghilterra con il famoso gol di mano, irregolare sì, ma bellissimo. L’immagine di Diego in cielo con ‘La mano de Dios’  sopra la testa è diventata leggenda. Ma non bastava ancora. Perché Maradona portava non solo le sue squadre a vincere, ma lo faceva regalando giocate spettacolari. E così il secondo gol fu una serpentina memorabile. La palla seguì docilmente tutti i movimenti del prestigiatore, obbedendo alla legge del sublime, come la musica fa con le note perfette, e le parole quando diventano poesia. Fu una rete incredibile, in cui Sua Maestà del calcio, partendo da centrocampo e dribblando cinque o sei avversari, arrivò a depositare la palla nella porta.

Il resto è stato teatro della vita. Spente le luci della domenica, l’uomo Maradona andava a confondersi nella penombra dei locali notturni. Una vita di passioni e vizi in cui perdersi, fatta di calcio e di donne. L’amata Claudia, le scappatelle più o meno note, la cocaina. Tutto è stato compreso e perdonato dai tifosi napoletani, che dall’amore sono passati addirittura alla venerazione. Ancora oggi, accanto a San Gennaro, hanno le immagini ‘sacre’ del Dio Diego, che esaudisce sogni di scudetto, rende felici gli ultimi e fa vincere i perdenti. Se per il resto del mondo Maradona ha rappresentato un’icona del calcio, per Napoli è stato qualcosa di più: una sorta di profeta, un simbolo, un rivoluzionario venuto a riscattare le sconfitte. E per una città che si è sentita sempre ai margini e abbandonata, l’amico importante di cui andare orgogliosi, nonostante tutto.

Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”, disse un giorno. E c’è riuscito. “Voglio giocare anche se ho il menisco a pezzi. E ho due sogni: il primo è giocare un Mondiale, il secondo è vincerlo”. E c’è un’immagine degna del Pibe de Oro: quella che alza la Coppa del Mondo vinta con l’Argentina nel 1986 a Città del Messico. “Non sarò mai un uomo comune”. E mai lo è stato. “Se non sono felice dentro, non riesco ad essere un campione”, e il suo fisico martoriato ne divenne la prova. “È fantastico ripercorrere il passato quando vieni da molto in basso e sai che tutto quel che sei stato, che sei e che sarai non è altro che lotta”. E forse gli avrà fatto piacere, il giorno della sua scomparsa e quelli dopo, vedere che il mondo parlasse ovunque quasi solo di lui. “Potevo anche trovarmi a una festa di gala vestito di bianco, ma se vedevo arrivare un pallone infangato l’avrei stoppato con il petto”. Ecco, questo era Maradona, che alla fine, nel congedarsi dal mondo, pronunciò una specie di poesia piccola: “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male”.

Il 25 novembre del 2020 era successo che Maradona se n’era andato. Dove, non si sa. Il mondo che ama il calcio si è ritrovato a piangere il campione, il goleador, il mito che ha scavalcato tempi e mode. E l’uomo forte e fragile che c’era dietro, con quella sua figura irregolare carica di umanità, che un po’ come nel calcio talvolta è solo istinto, e le regole le scavalca con un dribbling. A Napoli, in pieno lockdown, i tifosi si sono riversati per le strade, in processione, contro le regole, fino allo stadio che ora porta il suo nome, dove hanno alzato cori, acceso ceri e lasciato fiori che forse gli sarebbero piaciuti. Una piccola ‘rivoluzione’ in tempo di pandemia e distanze, per salutare con una sorta di preghiera laica, tutti insieme, l’ultimo Re di Napoli. Che se n’era andato lasciando in sospeso l’eterna sfida con Pelè per il miglior giocatore della storia. Una di quelle partite misteriose e inenarrabili, che non avranno mai fine né un vincitore. “Un giorno in Paradiso giocheremo nella stessa squadra – scrisse la Perla Nera nel suo ultimo saluto. - E sarà la prima volta che in campo alzerò il mio pugno al cielo senza festeggiare un gol. Lo farò perché finalmente ti avrò riabbracciato”.

Nasce oggi

Giorgio Faletti nato il 25 novembre 1950 ad Asti. È stato attore, comico, cantautore e scrittore di successo. Ha detto: “Era l’errore che tutti gli uomini fanno da sempre. Cercare di mostrarsi forti e sprezzanti vincitori quando forse basta avere il coraggio di chinare la testa e dire: ho paura”.

Maurizio Costanzo