Di questo e di altri virus

Un cambio di prospettiva nella sosta forzata

Michele Brancale

Michele Brancale

Firenze, 5 aprile 2020 - Quest'anno il tempo della Quaresima, che segna il ritorno all'essenziale, mediante gli strumenti del digiuno, della preghiera, della condivisione dei propri beni con i poveri, è percorso dall'epidemia del Covid 19. Non ci vuole un virus per scoprire ciò che conta davvero, ma questo rallentamento obbligato e localizzato nelle abitazioni, spinge a considerare il tempo in un altro modo, orientando anche i nostri sguardi sulla presenza degli altri, sulla solitudine personale e su quella di tanti, sulla fragilità in cui siamo immersi e anche sulle grandi possibilità che abbiamo riscoprendoci come un “noi” e amando il contesto naturale - il pianeta - di cui siamo ospiti. Tante reazioni scomposte, che abbiamo finito per accettare come normali nel tempo ordinario, appaiono ora nella loro distanza, anche nei loro aspetti tragicamente ridicoli. Nella pausa, in questa sosta forzata, si può colmare una distanza. Innanzitutto quella dal dolore degli altri, del quale ci si è accorti progressivamente, attraverso la restituzione della storia di chi scompariva perché la sua veniva reclamata dai suoi cari non come un numero ma come un legame unico, prezioso. Si colma la distanza condividendo: è la storia di tanti fili di sostegno, amicizia, servizio ai più poveri e a chi è più isolato proprio in questo momento. Della Quaresima si parla come di “radiosa tristezza”. I cristiani che cercano di viverla, per ritrovare ciò che conta accanto a Gesù che si avvia alla passione e che risorgerà, cercano di raggiungere “un posto dove i rumori e il trambusto della vita, della strada, di tutto ciò che di solito riempie i nostri giorni e persino le nostre notti, non hanno alcun accesso, alcuna influenza”, si relativizza “ciò che ci sembrava così tremendamente importante da occupare la nostra mente, quello stato di ansietà che ci era diventato come una seconda natura” (Evdokimov, 'La grande Quaresima'). Questo è lo scenario nel quale tutti ci siamo ritrovati non per scelta. E, volenti o nolenti, sperimentiamo la “distanza” da tante cose, ma soprattutto dalle persone, avvertendo “qualcosa d'altro”, che è legato al tesoro della Quaresima, il cui scopo “non è quello di imporci un certo numero di obblighi formali”, prescrizioni generalmente negative, che prese così sono lontane dal vero spirito della chiesa, ma quello di intenerire il nostro cuore e di indurlo a ripensare, a vincere la scontatezza, a fare i conti con le proprie azioni (e inazioni) e i loro effetti. Ci sembra quasi lezioso sentircelo dire, tanta è l'abitudine alla durezza e alle espressioni, anche verbali, di forza. “Peccato” è ciò che separa, che crea la distanza, che fa male, che rende gli altri scarti. Nella bolla di indizione dell'Anno Santo della Misericordia, Papa Francesco, che ha vinto la solitudine corale con il paradosso di quella sedia collocata in piazza San Pietro vuota, raggiungendo il mondo con la densità e la chiarezza di un messaggio su cui tornare, parla delle “pene temporali" come “l'impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri” (A. Giovagnoli). Peccati personali e sociali - altri virus - viaggiano insieme e la corsa forsennata all'affermazione di sé, senza sapere poi perché, cerca di cambiare le carte in tavola, truccando il gioco, modificando i significati. Potremmo fare molti esempi, ma attingiamo alla chiarezza di don Lorenzo Milani in questo momento in cui parte della classe politica europea rivela un volto arcigno. Certo, sembriamo avere partiti più digitali, più social, che di massa nel senso classico: “I partiti di massa non si differenziano dagli altri su questo punto. I partiti dei lavoratori non arricciano il naso davanti ai figli di papà. E i figli di papà non arricciano il naso davanti ai partiti dei lavoratori. Purché si tratti di posti direttivi. Anzi, è fine essere “coi poveri”. Cioè non proprio “coi poveri” volevo dire ” a capo dei poveri”. Ma quando i poveri hanno bisogno o quando tutti si scoprono nella possibilità di diventarlo, si preferirebbe ricondurli a statistiche o “clandestinizzarli” come è stato fatto con le badanti che custodiscono tanti nostri anziani soli o con i minori che non possono accedere alla cittadinanza pur crescendo con i nostri figli a scuola. 

Michele Brancale