
Angiolo Porri
Arezzo 14 settembre 2017 - Ecco l'ultimo diario degli otto finalisti al Premio Pieve. E' la terza storia aretina in concorso quest'anno, quella del fornaio Angiolo Porri che aveva la casa e la bottega in via Bicchieraia ad Arezzo.
UNA FAMIGLIA che vive e lavora nel centro storico di Arezzo. Una bottega come tante, quella del fornaio Porri. Una piccola attività durante l’Italia fascista degli anni Trenta che dà da mangiare a tutta la famiglia. Siamo in via Bicchieraia, una traversa tra Corso Italia e via Cesalpino. Oggi ci sono il teatro, la sede dei fanti del Comune, la Locanda di San Piero e tante botteghe artigiane. Nel 1935 ci vive a e ci lavora la famiglia di Angiolo Porri, fornaio. A raccontare questo spaccato di storia famigliare, memoria che va dal 1929 al 1940, è Giuseppina Porri, nata a Cortona nel 1923, oggi novantaquattrenne. «La casa in via Bicchieraia era tutto per me, allora. Come ci eravamo trasferiti lì era cominciato il mio amore per quella strada oscura, insignificante per la gran parte degli aretini e talvolta anche maleodorante». Il forno è proprio davanti casa, e la bottega è punto di ritrovo bevute della gente del posto: «Annesso alla vendita di pane c’era la pasticceria, c’era la mescita di vini e bevande, c’erano due tavolini con le sedie e chi veniva a bere un quartino si tratteneva volentieri. Al pomeriggio arrivavano i frequentatori della mescita: pochi i signori, alcuni commercianti della zona, un vecchio sacerdote che faceva una breve sosta andando al Duomo per le funzioni della sera, lo spazzino, l’accalappiacani, un idraulico che si intendeva più di vino che di condutture, un vecchio azzeccagarbugli che sbarcava il lunario dando consigli pseudo-legali, compilando ricorsi e moduli vari seduto al tavolino della nostra bottega, con il quartino di vino davanti. I giovani si trattenevano poco, il tempo di mangiare una pasta, e se ne andavano verso il Prato, se erano in dolce compagnia». Lì vicino anche gli amici e la scuola: «Il babbo mi preparava una rosetta dorata e morbida con burro e acciuga, la incartava e me la metteva in cartella raccomandandomi di mangiarla tutta». Una vita semplice, perfetta agli occhi di una bambina: «Avevo la mia famiglia, una bella casa, la bottega, tante persone care intorno, il mio babbo che cantava la “Cavalleria Rusticana” mentre infornava il pane, la mamma più bella di quante ne potessi vedere, i miei fratelli e la nonna Giuditta che aveva cura di tutti noi e ci difendeva da ogni rischio con le sue continue preghiere». MA SIAMO nell’Italia fascista. Un esponente locale ha un conto da pagare e Angiolo viene chiamato alla vicina Casa del Fascio dove verrà aggredito e picchiato. E da momento la famiglia Porri viene trattata con diffidenza: «Senza che nessuno parlasse, tutti nel vicinato cominciarono a guardarci in modo strano, il babbo era stato punito per le sue idee sovversive ed era meglio girare al largo dal nostro negozio, questo pensavano i vicini ed i clienti e se ne videro subito le conseguenze». Le conseguenze sono le attenzioni dei servizi segreti di polizia politica del regime, l’Ovra, i pestaggi, la reclusione in carcere durante le feste fasciste o le visite ufficiali, l’emarginazione, il tracollo degli affari, la povertà e un cuore che si ammala. Babbo Angiolo muore, nel 1940, mentre l’Italia è in guerra. Il forno in via Bicchieraia si spegne per sempre.
COSI' SCRIVE LA FIGLIA GIUSEPPINA PORRI
"IL LIBRETTO del Signor D.T. era in rosso da diversi mesi e la tratta della farina stava per scadere, occorreva mettere insieme il contante, quindi il babbo mi fece preparare il conto e mi mandò a sollecitare il pagamento “Con garbo, mi raccomando” mi disse. Mi aprì la porta il Signor D.T diede un’occhiata al conto e mi disse: Dì al tuo babbo che venga domani in Federazione che lo pagherò lì. Il giorno dopo il babbo scese presto di casa e si avviò sù per la salita verso la Casa del Fascio. Appena potevo mi affacciavo a guardare verso quel massiccio portone sempre chiuso, finchè lo vidi, appoggiato all’inferriata dell’ultima finestra bassa del palazzo. Corsi su per la salita verso di lui, aveva la maglietta stracciata, il volto tumefatto e insanguinato, lo presi per un braccio e la portai in bottega, si appoggiava a me mentre mi diceva “Non è niente bimba, non aver paura, non è niente“.
CAMILLO BREZZI DIRETTORE SCIENTIFICO DELL'ARCHIVIO RICORDA IL SUO PRIMO INCONTRO CON SAVERIO TUTINO
IL PRIMO RICORDO che ho di Saverio Tutino risale al 1995, quando venne ad Arezzo per presentare il suo libro “L’occhio del barracuda. Autobiografia di un comunista” alla Biblioteca Città di Arezzo, di cui ero il presidente. All’incontro era presente anche il professor Marcello Flores, che è anche tra gli ospiti di questo Premio Pieve. La prima impressione che ebbi conoscendo Tutino fu quella di un personaggio incredibile. Non si poteva che rimanere affascinati dalla sua presenza e dai suoi racconti. Saverio fu subito molto diretto con me. Oltre a dedicarmi il suo libro quale “compagno di storia”, mi disse: “Devi venire a Pieve Santo Stefano a scoprire l’Archivio dei Diari, è un posto magico, ti piacerà“. E così feci. La sua passione e il progetto che aveva realizzato mi entusiasmarono e iniziammo una proficua collaborazione. Di lì a poco organizzammo un bellissimo convegno sulle scritture di donne, una due giorni che si svolse tra Arezzo e Pieve Santo Stefano. Raccogliemmo intorno a questo tema gli interventi dei più importanti studiosi e delle studiose della materia. In seguito Tutino mi chiamò a partecipare alla giuria nazionale del Premio Pieve. Anche quella fu un’esperienza bellissima. Sedute intorno a un tavolo, a confrontarsi sul valore delle testimonianze autobiografiche delle persone “comuni“;erano persone estremamente diverse per formazione, sensibilità, retroterra culturale. Mi ritrovai tra scrittori, storici, antropologi, giornalisti. Eppure nonostante questa diversità, anzi proprio grazie a questa diversità, le riunione della giuria del Premio Pieve rappresentavano, e rappresentano tutt’ora, un momento di arricchimento umano e professionale, un ampliamento degli orizzonti di ognuno. Un appuntamento al quale, da “semplice” giurato prima e da direttore scientifico dell’Archivio poi, non ho più voluto rinunciare.