Oro, febbre da cavallo: è fermo al 60%, in cassa almeno metà degli addetti

I mercati internazionali al palo, da Dubai a Hong Kong e agli Usa. Il prezzo della materia prima oltre la soglia dei 51 euro, altro fattore di instabilità. Paura licenziamenti

Orafi al lavoro

Orafi al lavoro

Arezzo, 14 luglio 2020 - L’oro ha la febbre, come ai tempi di Charlie Chaplin, e quel che è peggio è positivo al Covid. Sì, a due mesi e qualche giorno dalla fine del lockdown produttivo, il 3 maggio, il settore portante dell’economia aretina soffre ancora le pene dell’inferno, come uno di quei malati che stanno a pancia in giù nelle rianimazioni, piegati da un virus che non ha colpito solo i corpi ma messo in ginocchio anche la produzione.

Come al solito parlano i dati: le stime più attendibili, sia di fonte imprenditoriale che di matrice sindacale, dicono che il distretto dei gioielli, il più importante d’Italia e d’Europa, uno dei primi al mondo, sia ancora fermo al 25-30 per cento della sua potenzialità. Se si considera che la ripartenza lenta di maggio era avvenuta su una base del 20, siamo ancora al carissimo amico di un comparto che vorrebbe (tornare alla normalità) ma non può.

Si aggiungano i dati drammatici della cassa integrazione, che interessa ancora almeno il 50 per cento dei circa 8 mila addetti diretti e avremo il quadro di un mondo nel quale la pandemia ha avuto un effetto devastante, un tunnel infinito del quale non si vede nè il fondo nè la luce. Più che una crisi di offerta, come era stata in principio, quando le aziende erano nell’impossibilità di produrre, con i capannoni sbarrati, è diventata una crisi della domanda,

Nel senso che l’oro non riparte per la più semplice, e pesante, delle ragioni: non c’è mercato. Nemmeno tanto in Italia, terreno di sbocco quasi perduto da anni ma che però, dicono i produttori, dà almeno qualche sussulto oltre l’encefalogramma piatto, quanto a livello internazionale. E’ l’elenco dei grandi importatori mondiali che assomiglia a un muro del pianto.

Dubai, che da sempre è il principale hub dei gioielli aretini, quello che smista la produzione del distretto in tutto il Medio Oriente, è fermo, al di là di qualche timido tentativo di rimbalzo. A Hong Kong, secondo mercato degli orafi aretini, c’è, oltre all’incertezza economica, un clima di instabilità politica da giorno prima della rivoluzione, gli Stati Uniti sono ancora in pieno nella morsa del Covid, con numeri al cui confronto la pandemia italiana pare uno scherzo.

Persino la Turchia di Erdogan esce nuda e cruda dal lockdown locale. La speranza è ancora quella di una ripresa autunnale (al netto di eventuali seconda ondate di virus che sarebbero esiziali) su cui puntavano fin da maggio grandi nomi come Sergio Squarcialupi di UnoAerre e Gianni Gori di Graziela, ma certo non aiuta il prezzo raggiunto dalla materia prima oro, oltre 51 euro al grammo ieri, sempre sopra i 51 nelle ultime settimane, ben oltre quella soglia dei 50 che pareva già un macigno.

Un ulteriore fattore di instabilità, perchè chi è che compra senza avere la certezza del prezzo al quale pagherà effettivamente? Il timore è adesso di quanto succederà dopo il 17 agosto, quando scadrà il blocco dei licenziamenti.

Che faranno le aziende: cominceranno a scaricare dipendenti, come temono i sindacati? Oppure, calcolando che sia una crisi congiunturale ma non strutturale, prorogheranno la cassa integrazione? O, peggio ancora, ed è la grande paura di fonti imprenditoriali, si andrà incontro a una catena di fallimenti delle imprese più deboli e meno strutturate finanziariamente, destinata anche quella a incidere sull’occupazione? La crisi, come la guerra di Badoglio, continua.