Stefano Pasquini
Nel canto XIII dell’Inferno, dentro la selva dei suicidi, Dante e Virgilio sentono un rumore fra il fogliame. Girandosi vedono due uomini nudi e graffiati, che corrono nel sottobosco. Sono Lano di Ricolfo Maconi e Iacopo di Santo Andrea, due noti scialacquatori, che, come pena, sono inseguiti da cagne infernali, che poi li sbranano. Le cagne fanno a pezzi i corpi dei dissipatori, come questi nel mondo fecero strazio dei loro patrimoni.
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
(canto XIII Inferno, versi 118-123)
Lano di Ricolfo Maconi era un giovane senese ricchissimo, che dilapidò tutte le sostanze. Nell’agguato della Pieve al Toppo, fatto dagli aretini ai senesi nel 1288, egli cercò deliberatamente la morte gettandosi tra i nemici, per non dover sostenere la povertà in cui si era ridotto.
Nel poema dantesco Lano invoca parimenti la morte, che lo possa liberare dalla pena eterna ("or accorri, accorri, morte!"). Iacopo di Santo Andrea, altro scialacquatore di Padova, rimasto indietro, gli fa notare però ironicamente che non erano state così svelte le sue gambe nella battaglia di Pieve al Toppo.
I fatti sono immediatamente successivi alla cacciata dei guelfi da Arezzo nel 1287, sono rimsti nella storia come le Giostre del Toppo, un’altra ispirazione per la rievocazione moderna della Giostra. I guelfi di Firenze, preoccupati dalla crescita della città ghibellina rivale, promossero un’imponente spedizione contro Arezzo nel giugno 1288. Pertanto due eserciti partirono simultaneamente, uno da Firenze e uno da Siena. Intanto gli aretini si chiusero dentro le mura cittadine. La difesa fu strenua e ben organizzata. L’assedio durò tre settimane ma il 23 giugno 1288 si verificò un evento sinistro: “Un forte turbine la vigilia di S. Giovanni s’abbatte sui collegati, travolgendo le baracche e padiglioni – scrive il Villani – spezialmente nel campo de’ Senesi, che tutte le stracciò e portò il vento in aria, e fu segno del loro futuro danno”.
Spaventati dal turbine e fiaccati dalla forte resistenza degli aretini, i fiorentini decisero, il 25 giugno, di togliere l’assedio, esortando i senesi a fare altrettanto. È qui che i senesi compirono un grave errore. Infatti i fiorentini li invitarono a seguirli, per sicurezza, fino a Montevarchi, per poi girare per Siena. Invece i senesi decisero di tornare da soli passando per Pieve al Toppo, pensando di saccheggiare Lucignano, visto che non c’erano riusciti con Arezzo.
A quell’epoca la strada per andare da Arezzo a Siena, attraverso la Val di Chiana, era praticamente una sola. C’era un unico punto che consentiva di passare sulla terraferma, in mezzo alle paludi della Chiana, un punto ubicato precisamente alla Pieve al Toppo. Nella notte fra il 25 e il 26 giugno un esercito di 2000 fanti e 300 cavalieri, guidato da Buonconte da Montefeltro e Guglielmo dei Pazzi, uscì dalle mura aretine all’inseguimento dei senesi. Le truppe si divisero in due parti: una seguì il percorso preso dall’esercito nemico e l’altra invece passò da Battifolle e poi proseguì per Viciomaggio e Mugliano, riuscendo a tagliare la strada ai fuggitivi, guidati da Ranuccio Farnese.
Gli aretini si sistemarono nascosti e silenti nella boscaglia, al limite della palude, probabilmente con i piedi nella fanghiglia. I fanti senesi arrivarono con le armi deposte o caricate sui muli che li accompagnavano. Neppure i cavalieri, circa 400, portavano l’armatura, le lance affidate ai servi e gli scudi sui cavalli. Le truppe aretine, celate dai canneti e dalla boscaglia, fuoriuscirono di colpo allo scoperto, precipitando anzitutto una pioggia di quadrelli e verrettoni, lanciati con archi e balestre. Poi partì sicuramente la carica della cavalleria, guidata da Buonconte e Guglielmo, impattando su militi del tutto impreparati e indaffarati a recuperare le spade e le lance. Da qui l’immagine della giostra che sicuramente rappresenta la cavalleria aretina che, girando, tormenta le povere armate senesi. Il comandante degli assaliti, Ranuccio Farnese, riuscì comunque ad organizzare due ali di cavalleria per tentare una reazione, prima di essere colpito mortalmente. In conclusione morirono e furono catturati più di trecento dei migliori cittadini di Siena e di Maremma.
Dalla dinamica si capisce che non si trattò di una vera e propria battaglia, ma di un agguato, pur se ben architettato. Lo stesso termine utilizzato di "giostre" fa pensare più a zuffe, duelli, che non ad un vero e proprio combattimento. Il Del Lungo ha voluto vederci anche un senso ironico di Dante, quasi a voler disprezzare quella vittoria in confronto alla vera battaglia che si svolse l’anno dopo a Campaldino. In questo senso deporrebbe anche l’occasione che l’Alighieri sceglie per citare l’evento nella Divina Commedia, e cioè la decisione, ridicola per quanto tragica, che lo spendaccione Lano avrebbe preso proprio durante le giostre del Toppo, di farsi uccidere dai nemici per sfuggire la sua vita di miseria. Non certo un episodio di eroismo. Anche questi versi appartengono dunque a quei giudizi sprezzanti che Dante è solito dare di Arezzo e delle sue imprese militari.