Il 2024 è il 40° anno della nascita dell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano e, sul piano editoriale, è iniziato con una bella sorpresa: la ristampa da parte de Il Saggiatore di "Gnanca nà busia" (Neppure una bugia), vale a dire la trascrizione di uno dei diari più simbolici, forse il più emblematico, il Lenzuolo di Clelia. L’Archivio dei diari era nato da soli due anni quando nell’inverno 1986, dopo un lungo viaggio in treno e corriera, Clelia Marchi, accompagnata dal sindaco del suo paese e dalla sua amica Rosanna Mai (che continua a frequentare ogni anno il Premio Pieve), giunge a Pieve Santo Stefano e consegna a Saverio Tutino, fondatore dell’Archivio (presente l’allora sindaco di Pieve, Albano Bragagni) un grosso pacco, che, a differenza di quelli che giungono quotidianamente all’Archivio, è soffice.
Clelia, "un viso bello, incorniciato da una capigliatura canuta e ben pettinata, le trecce attorcigliate, gli occhi sfavillanti", come l’ha ricordata Saverio Tutino nella Prefazione alla prima edizione del 1992 e ripubblicata anche in questa ristampa, "portava l’età indefinita di una capofamiglia contadina vestita bene per una cerimonia". Viene aperto il pacco e si capisce il perché di questa particolare consistenza: un diario straordinario scritto su un lenzuolo. La sua storia, quella dell’amato Anteo, ma soprattutto della fatica del suo lavoro, "delle sofferenze di ogni giorno", della povertà dei contadini del mantovano.
Clelia Marchi nata nel 1912, fa parte di una famiglia contadina di Poggio Rusco, numerosa, povera; sin da bambina inizia a lavorare in campagna; all’età di otto anni portava al pascolo i vitelli del padrone: "Si andava scalzi; per risparmiare gli zoccoli: con una rugiada fredda: che i piedi si gelavano: per scaldarsi quando una mucca faceva la popò: andavamo dentro con i piedi per scaldarsi".
Frequenta solo due anni della Scuola elementare, all’età di 14 anni, mentre lavora alla macchina del frumento, vede "un uomo bello, biondo, con gli occhi azzurri" e, seppure "vecchio" (Anteo ha 25 anni), si innamorano e dopo due anni vanno a vivere insieme con la famiglia del marito, in una situazione di maggiore povertà. Arrivano i primi figli. Si sposeranno dopo tre anni per non pagare la tassa sul "celibato", introdotta dal regime fascista.
La vita quotidiana della campagna è sempre più faticosa. Tra l’ironico e il polemico nei confronti del famoso film di Ermanno Olmi, Clelia scrive sul lenzuolo: "Questo è il vero albero degli zoccoli vero sincero".
Tra i tanti ricordi, episodi, i dolori, le paure della difficile, drammatica vita quotidiana della campagna mantovana nella prima metà del secolo (ma rappresentativa di tutte le campagne italiane) ci ricorda (per rimanere nell’ambito della grande cinematografia italiana) alcune sequenze sulla campagna emiliana in Novecento di Bernardo Bertolucci.
Decora il telo con nastri rosa, nel lato superiore cuce le immagini del marito, di Gesù Cristo, la sua e le incornicia con del pizzo. Gesti semplici che connotano la quotidianità femminile, ma nel caso di Clelia con questi richiami la memoria si fa monumento di una vita. Le scritture del sé sono parte di un progetto esistenziale finalizzato a produrre qualcosa di durevole, a salvare la propria vicenda dall’oblio. La "mia vita è stata tanto faticosa; e dura; con mio marito ci siamo tanto amati"; ormai sono tranquilli "pensionati", guardano al loro futuro godendosi la numerosa famiglia, quando (nel 1972) l’amato Anteo viene travolto da una macchina sul ciglio di una strada: "sono rimasta vedova quasi all’improvviso, mi sento vuota, finita, inutile passo le mie giornate à piangere".
La solitudine spinge Clelia a scrivere: "l’urgenza impellente di scrivere" (Tutino). Ha già riempito diversi fogli, ritaglia fotografie dalle riviste, incolla, li cuce insieme, "fabbrica" dei libri di ricordi con le copertine a uncinetto; matura il desiderio o l’esigenza di raccontarsi, di dare ordine e senso alla propria vita. Una notte si accorge di non avere più carta a disposizione per scrivere; ricorda le lezioni ormai lontane della sua maestra che le aveva raccontato come "i truschi" avvolgessero i morti in un pezzo di stoffa. "Ho pensato se l’hanno fatto loro lo posso fare anch’io. Le lenzuola non le posso più consumare col marito e allora ho pensato di adoperarle per scrivere". Rielabora la perdita facendo della custodia della memoria e della scrittura due strumenti di conforto e di riflessione. Il lenzuolo, un pezzo di corredo matrimoniale d’altri tempi, una robusta tela di cotone solcata da una minuta grafia, può essere utilizzato per raccontare la loro storia: "ho scritto il tuo nome sulla neve il vento là cancellato. Ò scritto il tuo nome sul mio cuore e lì si è fermato".
Il Lenzuolo di Clelia è un documento che da anni si può ammirare nel Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano, ma è anche un documento da leggere, un racconto "sul filo della sincerità", perché, come puntualizza Clelia nelle prime righe, "non o raccontato: gnanca nà busia né par mi; né ai lettori!!!". Una storia, unica, che (come ricordava Saverio Tutino) ha "la cadenza e la costruzione di una poesia di lungo respiro". Aspetto che Vinicio Capossela richiama nella sua Postfazione quando ricorda l’eternità della poesia: "questo lenzuolo è quella poesia, che dura più a lungo delle mura di casa che custodivano il lenzuolo", e precisa ancora: "questo libro è un museo a cielo aperto di una vita. È una donazione che ha trovato il suo posto".