
Alberto
Pierini
Erano i protagonisti forse dell’ultima, vera serata di gala della storia aretina. Perché lo spettacolo va avanti e le occasioni si moltiplicano: ma dove trovi un’altra prima nazionale di un film da Oscar? Quella sera di 25 anni fa, un martedì 16 dicembre del 1997, erano tutti al Politeama. La prima de "La vita è bella", quel 16 dicembre, in anticipo di due giorni sull’uscita con la grancassa in tutte le sale nazionali. Tutti al Politeama e il resto della città a masticare amaro per aver perso l’occasione della vita, bella perfino. Rimasero fuori da quel cinema che oggi non c’è più perfino alcune delle comparse chiave del film: qualcuna era lì, in piazza Risorgimento, all’arrivo dell’auto scura di Vittorio Cecchi Gori, il super produttore già felice del colpo della vita. "La moglie di D’Alema ha pianto come una vite tagliata alla fine del film" racconta ai giornalisti nell’intervallo. Quando ancora non ti rendi conto come un film a lungo quasi comico possa virare verso la tragedia.
Un film che da mesi monopolizzava il centro, il set unico del primo tempo. Si sarebbe dovuto chiamare "Buongiorno principessa": la frase dell’incontro tra Guido e Dora campeggiava perfino sui ciak che scandivano il passaggio delle scene e lo sviluppo del film. Solo alla fine Benigni, già un po’ votato alle grandi letture che avrebbero accompagnato la seconda parte della sua carriera, fu folgorato da un passaggio del testamento di Tolstoj. "La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore". Il film d’incanto cambiò titolo.
A due poltrone da Benigni in quel Politeama ancora non sventrato dalle ruspe che ne avrebbero fatto un complesso edilizio e un centro commerciale, c’era anche Vincenzo Cerami, la firma determinante per la sceneggiatura. Insieme a Benigni l’aveva scritta a Gargonza, in uno di quei ritiri che solo le pieghe a sorpresa della nostra terra concedono.
Una serata di gala quasi senza vip. Perché erano attesi il fresco parlamentare Antonio Di Pietro, il già rodato Franco Marini, Walter Veltroni, la scuderia infallibile di Cecchi Gori, da Verdone a Pieraccioni. Vennero in pochi, alimentando la malinconia d alcuni dei protagonisti rimasti fuori. O di chi da Arezzo sapeva di perdersi il gala della vita.
Tutto era iniziato al Minerva, qualche mese prima. I saloni dell’albergo avevano ospitato il casting, complesso visto il caleidoscopio di personaggi che si snodano nella prima parte del film. In parallelo Castiglion Fiorentino aveva aperto all’attore e compaesano la sala del consiglio comunale. E’ lì che fu scelta Rossella Amatucci, la controfigura quasi perfetta di Dora. "Cercavano un fisico simile a quello dell’attrice, presero me" raccontava nella notte delle comparse organizzata in piazza Grande da Marcello Comanducci. Da lì nacque la gag che l’avrebbe accompagnata in tutto il film. "Mi sarei dovuta sposare il mese dopo: e Benigni insisteva in ogni momento, attenta, vengo al tuo matrimonio".
Sotto sotto sapeva che non sarebbe andato ma il tormentone dietro le quinte era troppo goloso per lasciarlo cadere. "Guarda che Castiglioni la conosco a menadito, ti scopro": e quella familiarità richiama le recenti telefonate al sindaco Agnelli, sorta di riconciliazione tra Robertaccio e il suo paese.
Schegge di un film diventato famoso in tutto il mondo. E che aveva rovesciato la città. La scelta dei mezzi storici ad esempio era stata fatta alle Caselle. Molti li mise a disposizione Pasquale Narducci, quel filo di inquietudine che attraversa il primo tempo è anche legato alle sue auto, alle sue Balilla. Niente a che vedere con la caduta di bicicletta. La controfigura di Benigni era Domenico Chianese, a sbucciarsi il ginocchio per l’attore era stato lui. E anche se la storia del cinema non lo ricorderà lui era stato a dare il primo buongiorno alla principessa.
Nella scena visibilmente mutuata dall’amico Massimo Troisi, l’incontro solo apparentemente casuale con Dora, sullo stile dell’isolato corso a perdifiato in "Ricomincio da tre". Un po’ come il duetto al Petrarca. "Voltati, voltati" sussurrata da lontano alla sua bella e che fa sognare la spettatrice che se ne crede protagonista. Era Miriam Basagni. Per farsi perdonare delle false attenzioni Benigni le mandò un gelato alla fragola, spaventando il trucco e parrucco.
"Lo assaggiai e basta, non potevo sciupare tutto" avrebbe raccontato. Un vortice di emozioni che in quella sala del Politeama del 16 dicembre 1997 fluiscono finalmente attraverso le riprese del film. Lì dove solo gli aretini riconoscono le quinte: il tappeto rosso dal Duomo alla Provincia, l’esterno del Signorelli al posto di quello del Petrarca, la piaggia San Martino di Maria mentre butta la chiave, la libreria di Guido in Borgunto, la Villa Masini che è insieme casa di Dora, Grand Hotel e la villa del direttore, via Trento a Castiglion Fiorentino con l’arrivo del re, San Francesco con la vetrina dei Costanti, via Garibaldi a due passi dal carcere, via Saffi della corsa in bici, naturalmente piazza Grande. Set strappati al quotidiano e consegnati alla storia del cinema.
Ma quella notte di dicembre nessuno ancora lo sapeva: erano lì, tra le poltroncine del Politeama, a godersi il trionfo della città e quello di Benigni. Gridandone il nome oltre un anno prima che lo facesse Sophia Loren all’annuncio degli Oscar.