La febbre dell’oro trascina in alto l’export

Più 6 per cento anche nei mesi del lockdown: decidono i lingotti, crolla invece l’oreficeria (meno 70). Moda giù, agroalimentare sù

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di Salvatore Mannino

E’ la febbre dell’oro. In positivo, nel senso che i lingotti trascinano l’export a un risultato incredibilmente positivo anche nel corso del lockdown, e pure in negativo, con la gioielleria che crolla: meno 70 per cento nel secondo trimestre del 2020, quello delle fabbriche chiuse e anche della difficile ripartenza del’oreficeria, ferma al palo fino all’estate.

Il dato eclatante è comunque il 6 per cento di crescita delle esportazioni in tre mesi, da aprile a maggio, nei quali tutti avevano dato quasi per scontata una caduta anche pesante, specie in una provincia nella quale i distretti portanti, quello dei gioielli e quello della moda, si erano fermati praticamente al completo fino al 4 maggio. Invece Arezzo è una delle poche realtà del paese in cui gli affari verso l’estero registrano un saldo attivo, insieme a Genova e Rovigo.

Il miracolo lo fanno appunto i lingotti, la cui corsa pare inarrestabile: più 80 per cento nel secondo trimestre dopo più 85 per cento nel primo. In valori assoluti, un miliardo e mezzo di oro puro esportato, più della metà dei 2,5 miliardi totali. Nel semestre siamo già a 2,8 miliardi, con un trend che se continuasse consentirebbe all’export aretino di limitare i danni del Covid, quando tutti pensavano a un pesante risultato negativo. I tre giganti del settore, Chimet, Italpreziosi e Tca, ma anche la Safimet quarto incomodo, hanno continuato evidentemente a sfornare produzione, spesso con la giustificazione che i forni non si potevano spegnere per non danneggiare gli impianti, spinti dalla domanda fortissima dei mercati internazionali, più che mai a caccia, soprattutto la Svizzera, di beni rifugio nella tempesta.

Colpito e affondato, invece, il distretto dell’oro lavorato: si ferma a 139 milioni, un massacro rispetto all’anno scorso e anche nei confronti del primo trimestre, che pure era andato male. Il crollo in sei mesi è del 44 per cento, 582 milioni contro il miliardo più o meno del 2020. Non è certo una sorpresa: di tutta la manifattura aretina, i gioielli sono quelli che hanno fatto più fatica, stretti nella morsa dei mercati mondiali del settore in gran parte chiuso.

Una recessione, prima da crisi dell’offerta (la produzione ferma) e poi da quella della domanda (i grandi paesi importatori in stallo) che colpisce duro anche nel settore moda: 142 milioni esportati con uno choc del 30 per cento nei tre mesi e del 28 nel semestre. Arretrano tutti i comparti: meno 21 per cento l’abbigliamento, meno 25 la pelletteria, meno 43 le calzature, meno 53 il tessile.

Chi si salva, dunque, insieme ai Signori dell’Oro? In primis l’agroalimentare che mette a segno un più 38 per cento, anche grazie al fatto che non si è mai fermato. Grandi aziende come la Buitoni e, in dimensioni più ridotte, Fabianelli hanno piazzato prestazioni da primato sui mercato internazionali. Bene anche il farmaceutico, dove il nome forte è Aboca, pure essa mai coinvolta dal lockdown: i numeri sono bassi rispetto ai grandi distretti, ma la crescita è importante: 61 per cento. Tengono la meccanica e l’elettronica delle altre sigle che hanno evitato il lockdown.

Non è solo questione di oro. Anche al netto dei lingotti, la manifattura perde sì tanto (il 20 per cento) ma dieci punti sotto la media toscana.