
di Erika Pontini
"Abbiamo acceso la luce a Milano, Torino, Firenze. E adesso Abu Dhabi. Il nostro segreto? Illuminare tutte le città del mondo come fosse il salotto di casa, la luce è in grado di grandi trasformismi, basta guardare la Cattedrale di Arezzo, prima era spenta". Cinquantasette anni dopo che nonno Cino Cini accese i Lungarni dopo l’alluvione con i candelabri artistici in ghisa, Lorenzo Cini, 32 anni, racconta la storia di un’azienda che ha fatto del made in Tuscany la sua carta vincente tramandata di padre in figlio. Nessuna delocalizzazione verso terre a basso costo di manodopera ma 70 robot che integrano il lavoro di un’azienda che oggi conta 270 addetti e un fatturato di 100 milioni di euro.
Siete nati quando l’illuminazione aveva un valore diverso...
"Nel 1957 mio nonno fondò l’azienda a Subbiano, in paese ma faceva soprattutto arredo artistico. Nel ’66 quando l’alluvione distrusse mezza Firenze fu lui a illuminare i Lungarni. Le sue opere ci sono ancora".
Che uomo era?
"Non averlo conosciuto è ancora oggi un grande dispiacere. Morì improvvisamente di ictus nell’84 e mio padre, allora venticinquenne, si ritrovò solo e si dovette rimboccare le maniche".
Sembra esserci riuscito...
"Da ditta artigianala l’ha trasformata in un’azienda leader nel settore dell’illuminazione pubblica".
I numeri?
"Un fatturato consolidato di 100 milioni di euro, 270 persone nella sede di Subbiano tra prouzione e direzione".
La vostra forza?
"Facciamo tutto noi: dalla progettazione fino alla realizzazione, qualsiasi pezzo va dentro l’apparecchio".
Ma non vi costa di più?
"Si, ma è una scelta qualitativa forte. Il nostro marchio sul mercato è posizionato per affidabilità e qualità: ci siamo conquistati il campo con tanti anni di sacrifici. Non abbiamo mai delocalizzato ma investito tantissimo sull’automazione di tanti processi cercando di portare tecnologie nuove per far sì che i costi fossero sostenibili".
Quali città avete illuminato?
"Milano, Torino, Firenze, Perugia".
Arezzo?
"No, nessuno è profeta in patria. L’appalto è stato vinto da una multinazionale francese... meglio che lasciamo perdere. Per noi è un tema doloroso".
E il Duomo?
"Una volta era spento, ora è illuiminato con i nostri led".
Il mercato estero?
"Siamo presenti in più di 50 paesi in maniera consolidata, il mercato estero vale il 60 per cento.
Lavoriamo molto in Europa, in Medio Oriente, meno nelle Americhe. Ma ci siamo anche in Astralia e Nuova Zelanda".
Prossimo impegno?
"Abu Dhabi".
Cambiare la luce conviene in una città?
"Con le lampade al Led risparmi il 50 per cento di energia".
Che oggi con il caro bollette è parecchio...
"Sta creando grossi problemi ovunque".
A voi?
"Abbiamo investito molto nelle rinnovabili: il capannone è coperto da pannelli fotovoltaici ma non siamo autosufficienti, è impossibile. Nonostante questo l’impatto dei costi è tremendo: oltre il 100 per cento".
Il Covid vi ha pesato?
"Durante il lockdown siamo stati chiusi solo una settimana e le commesse hanno solo ritardato. Adesso con questa nuova ondata abbiamo trenta dipendenti a casa".
Avete illuminato anche gli stadi?
"Venezia e La Spezia".
Cosa cambia?
"Al tifoso in tribuna poco, per gli effetti scenici tutto. Basta guardare i giochi di luce, il riscaldamento diventa una suggestione".
Ma il futuro della luce qual’è?
"In questo momento è ancora il Led ma ci sono tecnologie nuove come il laser. E’ ancora presto per parlare di illuminazione al laser ma noi stiamo sviluppando una ricerca molto forte. Stiamo iniziando a ’giocare’ con queste soluzioni".
Torniamo a suo padre: qual’è stata l’intuizione vincente?
"Non credo sia stata facile: era un impiegato e si è ritrovato a capo dell’azienda. Ha puntato sulle strade: un’illuminazione totale in una città".
Di padre in figlio...ora c’è lei?
"Ci siamo divisi i compiti con mio padre, e le mie sorelle Alessia e Martina. Lui resta una grande maestro per me. Ma il suo metodo per farci entrare in azienda è stato abbastanza choc".
Cioè?
"Le cose te le devi guadagnare. Ma non ci ha mai obbligato: ’fate quello che volete’, diceva".
E lei ha scelto Aec?
"Ci sono cresciuto qui dentro. Era il mio doposcuola: mamma e papà lavoravano tutto il giorno".
E cosa ricorda?
"Le pile del Sole 24 ore perchè era rosino".
E’ sempre il figlio del titolare...
"Non siamo mai stati abituati a scialare, anche se non ci è mancato niente. Non è stato il paparino che ti accompagna per mano. All’inizio mi ha inquadrato come operaio e ho imparato anche a usare il tornio perché sono uno smanettone, poi ho girato tutti i reparti. Adesso sono vicepresidene e mi occupo della direzione commerciale".
E il tornio c’è ancora?
"E’ robotica integrata gestita da un software".
Oggi è vicepresidente: più orgoglioso o più preoccupato?
"Ho l’orgoglio di avere un’azienda del nonno, del babbo, fiore all’occhiello del mercato: per me un privilegio. Ma è una grande responsabilità".