Benvenuti nella Città Etrusca del silenzio La crisi di Cortona, resa orfana del turismo

Alle sei del pomeriggio è già coprifuoco: bar chiusi, negozi che stanno abbassando le serrande, ristoranti che non aprono di sera neppure per l’asporto. La grande carestia dell’unico centro storico aretino che vive dei flussi (inesistenti) di chi viene da fuori

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di Salvatore Mannino

E’ vero che è un’altra delle città del silenzio, come Arezzo, cantate da D’Annunzio, ma il silenzio di Cortona in un normale giorno feriale di gennaio fa impressione. Roba da Francesco Nuti: Madonna, che silenzio c’è stasera. E infatti alle sei del pomeriggio, mentre cala la notte e la poca gente in giro accelera il passo per raggiungere il caldino di casa, non vola una mosca, da piazzale Garibaldi, la terrazza a sud con veduta sul Trasimeno, alle piazze (deserte) del Comune e Signorelli, i due scenari più splendidi di un centro storico magico, passando per Rugapiana (o via Nazionale), il corridoio dei passi perduti che in una stagione normale pullulerebbe di turisti.

Ecco, si chiama turismo la malattia della quale soffre la Città Etrusca e dalla quale non si è mai ripresa del tutto, nonostante la fiammata estiva. Cortona (il comune, intendiamo) è una realtà strana: 22 mila abitanti ma concentrati perlopiù nel piano di Camucia, Terontola e delle tante frazioni di campagna. In vetta al colle, in un’acropoli resa ancor più suggestiva dal vuoto, come una città del day-after, non sono rimasti più di mille residenti (forse meno), in gran parte anziani. Di turisti zero e ci mancherebbe: col divieto di oltrepassare i confini regionali non ci possono essere, nemmeno con la Toscana zona gialla. Con il che viene meno tutto l’indotto: per chi dovrebbero aprire i negozi, i bar e ristoranti dei quali il centro pullula con una densità che nemmeno il capoluogo, Arezzo, riesce ad avvicinare?

Infatti, nell’ora che volge al disio, i caffè sono quasi tutti chiusi: è già calato il coprifuoco delle 18, oltre il quale non si può continuare neppure con l’asporto, nè d’altronde varrebbe la pena di tenere le serrande alzate per una manciata di tazzine. I negozi sbarrano le entrate di conseguenza: in giro per Rugapiana i passanti si contano sulle dita di una mano sola, tanto vale risparmiare almeno sulle bollette e tornarsena a casa in anticipo. Idem dicasi per i ristoranti, qualcuno dei quali peraltro almeno a pranzo è aperto: la cena è vietata, il delivery, ossia la consegna a domicilio, una pia speranza: il bacino della città antica è troppo piccolo, da Camucia non sale nessuno, meglio servirsi nei locali giù in basso. L’esempio, del resto, viene dai migliori: Il Falconiere, l’unico ristorante stellato della provincia, è fermo da mesi, la Bottega Baracchi, stessa famiglia, mostra le saracinesche calate in piazzale Garibaldi, dove è sbarrato anche l’altro nome storico, Tonino. Una desolazione, roba da deserto rosso di Antonioni.

La verità è che Cortona è malata della stessa sindrome di Firenze e Venezia, di cui in piccolo è una replica: chi viveva di stranieri o comunque di vacanzieri è all’anno zero. Una metafora dell’Italia per come è cambiata nell’anno del Covid: chi affondava le radici in un business basato principalmente sul pubblico dei residenti (è il caso di Arezzo, che non ha caso ha retto molto meglio di Firenze o Pisa, ma anche, in dimensioni minori, di Camucia nello stesso comune e Castiglion Fiorentino), regge in qualche modo alla grande carestia del turismo, chi invece aveva puntato il proprio modello economico sull’invasione di quanti vengono da lontano, è ridotto all’inedia.

Basta infatti tornare nel capoluogo per trovare un altro mondo, anche se sono già le sette di sera: più luci, invece della cupa penombra della Città Etrusca, più gente in giro, negozi aperti fino alle 19,30, perchè il movimento assicura comunque anche gli affari. Ridotti ma non siamo all’agonia. E allora quale destino per Cortona, per questo straordinario museo all’aperto disertato dai suoi frequentatori? La speranza si chiama vaccino, fine dell’emergenza Covid, oppure il ritorno alla normalità richiede un cambiamento del paradigma di sviluppo, con un’alternativa che non si capisce quale possa essere? E’ il bivio di fronte al quale si trova la Città del silenzio.