
Valentina Brancadori
Arezzo, 24 luglio 2020 - Le persone vengono a noi per una ragione, che sia per una stagione o per una vita intera». La stagione di Valentina Brancadori è durata poco, troppo poco: la malattia l’ha fermata ieri, a 31 anni. Ma nessuno ha dubbi su quale sia quella ragione che lei stessa evocava in un video di pochi mesi fa. Dimostrare che si può ritrovarsi prigionieri di una patologia terribile, la neurofibromatosi, e rimanere liberi.
Liberi di scrivere libri, di approfondire le cause della propria malattia, di raccontare la sua storia ai ragazzi delle scuole. Sorda e cieca, comunicava con il palmo della mano. La sua famiglia straordinaria, i volontari dell’Unitalsi, le componevano frasi a fior di pelle: e lei capiva, rispondeva, curiosa come in tutta la sua vita. Una storia incredibile. Che si è andata a spegnere nell’hospice di Pescaiola, dove ha vissuto i suoi ultimi mesi.
E che ieri la gente di Subbiano raccontava con le lacrime agli occhi. Perché a dispetto di quella malattia che non si fermava, non si fermava mai, e nessuno meglio di lei lo sapeva, continuava a progettare. Lottando come Giampi, il protagonisti del suo libro «Un volo di follia». Giampi, come il babbo che si chiama Giampiero, incrociando sulla carta e tra le pieghe della sua storia le pagine più diverse.
Un fantasy, costruendo una realtà parallela ma senza mai sfuggire alla sua. «Il genere – ci aveva raccontato in un’intervista – è una parafrasi per sfiorare argomenti impegnativi lasciando piena libertà a chi legge».
E per lei la libertà era sacra, come quanti si ritrovano senza volerlo prigionieri del proprio corpo. «Basta poco per essere felici» aveva scritto nell’introduzione del suo libro. Perché ci credeva, perché era la ribellione a chi pensava che non potesse essere felice. E invece sì, lo è stata, perfino in quella «gabbia» che le impediva di proseguire l’attività scout, di passeggiare come le piaceva da matti.
Uno degli ultimi racconti lo ha dedicato ai nonni, per lei la famiglia era una lente per il mondo. Aveva scritto della sua malattia, il suo sogno, da laureata in biotecnologie, era diventare comunicatrice scientifica. E comunicare in effetti era la sua forza, anche se tutto pareva impedirglielo. «Sono entrata in un reparto di neurochirurgia a 11 anni e il mio desiderio più grande era di fuggire».
Ma non è mai fuggita, neanche nei momenti peggiori, neanche quando il dolore fisico la tormentava. Orgogliosa di esserci, anche se per una sola stagione: sapendo perfettamente la ragione e avendo la capacità rara di farla capire agli altri, anche senza parlare. Una barra breil, una tastiera per non vedenti, la fantasia, e non sempre il fantasy, a dettarle racconti, storie.
Puntava il dito sulle città proibite ai malati, sugli ostacoli nei mezzi di trasporto. Ma mai con rabbia, sempre con la grinta di chi non ha mai smesso di crederci, di tentare di uscirne fuori. «Mai arrendersi» scriveva pur a fatica nelle dediche dei suoi libri. Non lo ha fatto fino all’ultimo. E per questo stamani alle 11 saranno tutti lì a salutarla. Dopo una stagione più lunga di una vita intera.