Alluvione Firenze, Venditti angelo del fango. 'Ero liceale, imparai la solidarietà'

Il cantautore romano: "Andai a scavare con gli scout americani"

Alluvione a Firenze nel 1966

Alluvione a Firenze nel 1966

Firenze, 5 novembre 2016 -  Il’68 era lontano, specialmente in Italia. Eppure gli adolescenti annusavano che l’aria sarebbe cambiata, sentivano crescere la voglia di sollevare il mondo, rivoltarlo, aprire la finestra e far entrare ventate di tramontana. È anche questo il richiamo che metterà insieme gli angeli del fango, una generazione di ragazzi da tutto il mondo, dai quindici a trent’anni, che, per una misteriosa alchimia, nel novembre del ’66 si ritrovarono a spalare fango nelle strade di Firenze. Tanti di quei giovani – allora con i primi jeans e i capelli lunghi, oggi attempati ed eleganti signori – dopo 50 anni si sono ritrovati nelle stesse piazze in riva all’Arno, con l’orgoglio e la commozione di essere stati fra coloro che aiutarono i fiorentini a strappare i loro tesori dalla melma.

Fra loro, 17 anni appena, c’era Antonello Venditti, liceale del Giulio Cesare a Roma, che riuscì a partire per la Toscana.

Che ricordo conserva di quei giorni?

«Come l’albore di qualcosa di nuovo. Il ’66 è difficile da raccontare, è un mondo che non c’è più. In noi ragazzi stava crescendo la coscienza della solidarietà, portavamo dentro di noi questa idea dell’aiutarsi a vicenda, di rompere gli schemi di una società rigida Ma poi era molto difficile metterla in pratica questi moti dell’animo. Bisogna pensare che quella era un’Italia in bianco e nero, con un solo canale alla tv e una radio di Stato. Non c’erano i telefonini, Internet, non era l’epoca dei selfie...».

Come arrivò a Firenze?

«Con un gruppo di scout americani collegati a una scuola romana. Sono riuscito a partire perché mio padre da viceprefetto coordinava gli uffici delle calamità nazionali, quella che oggi è la Protezione civile. Altrimenti sarebbe stato impensabile partire e saltare la scuola. Quelli non erano tempi in cui si leggevano i giornali in classe o si facevano dibattiti. Era una scuola nozionistica, cui la mia generazione cominciava a ribellarsi. Potremmo dire che erano i primi vagiti del ’68. Ma furono pochi quelli che, pur sentendo il dovere o la volontà culturale di rispondere a un senso civico poterono davvero partire per Firenze».

Com’era il lavoro in mezzo al fango?

«Tutto organizzato. La struttura statunitense di cui facevo parte sapeva bene che cosa fare e dove farci intervenire. Ricordo che lavoravamo al fianco di tanto personale competente che ci diceva come raccogliere e come posizionare sugli scaffali libri, documenti, oggetti di ogni genere. E poi c’erano i soldati, che arrivarono con i mezzi anfibi e tutta l’attrezzatura necessaria a spalare e a rimuovere i detriti per le strade. Senza di loro sarebbe stato impossibile ripulire la città in così poco tempo».

Che cosa le ha insegnato quell’esperienza?

«Che spesso sono gli altri a ricordarci di quanto sia straordinariamente ricco di meraviglie il nostro paese. L’importanza della nostra cultura lo vedi da quello che gli stranieri hanno fatto per noi».

Fra gli angeli del fango c’era anche un suo amico e collega, Francesco De Gregori.

«Sì, è vero. Ma non ci conoscevamo. Non è capitato di incontrarci nelle strade di Firenze e poche volte abbiamo parlato di quell’avventura del ’66. Credo che per entrambi resti prima di tutto un ricordo molto intimo».