Il desaparecido di Viareggio, che fine ha fatto Carmine Porrino? Un mistero lungo oltre 40 anni

Il diciannovenne scomparve dai radar il 14 aprile 1983 e a nulla hanno portato le ricerche. Il padre ha cercato la verità fino a che è rimasto in vita. Ipotesi e suggestioni

Sono più di quarant’anni che Carmine Porrino, un giovane abitante al quartiere Varignano non ancora ventenne, si è dissolto nel nulla, finendo nel buco nero di una storia che virtualmente non è mai finita

Sono più di quarant’anni che Carmine Porrino, un giovane abitante al quartiere Varignano non ancora ventenne, si è dissolto nel nulla, finendo nel buco nero di una storia che virtualmente non è mai finita

Viareggio, 14 aprile 2024 – Trascinato via da mani e braccia certamente non amiche, senza troppi complimenti, inghiottito dalla tenebre della notte e mai più tornato a casa ad abbracciare i genitori e le sorelle, né tanto meno ha dato un cenno di vita, un colpo di telefono, una lettera. Niente di niente: sono più di quaranta anni che Carmine Porrino, un giovane abitante al quartiere Varignano non ancora ventenne, si è dissolto nel nulla, finendo nel buco nero di una storia che virtualmente non è mai finita.

La logica però ci dice che il ragazzo ha fatto una brutta fine. Perché? Di quale colpa si era macchiato? E chi l’ha rapito, con quel che segue? Domande senza risposte. Neppure gli informatori più smaliziati di polizia e carabinieri conoscevano la sorte di Carmine, che evidentemente doveva avere pestato i piedi a qualcuno o visto qualcosa che non doveva vedere per essere trattato così.

Carmine Porrino è dunque un desaparecido di casa nostra, in tutto e per tutto. Così dalla sera del 14 aprile 1983 è cominciato il calvario della sua famiglia: il padre Raffaele, scomparso nel dicembre di due anni fa, non si era mai rassegnato a non conoscere, qualunque essa fosse, la sorte del figlio. Giorno dopo giorno, ha avuto un grande peso sul cuore. Ora, virtualmente, Carmine è accanto a lui perché sulla lapide al cimitero di Maggiano, dove è sepolto, oltre alla sua c’è anche la foto del figlio che sì era molto vivace ed esuberante, anche troppo, ma come diceva papà Raffaele quando arrivava in redazione a chiedere attenzione per la storia “è sempre mio figlio, sangue del mio sangue”. Disperato, non si rassegnava, coltivava sempre la convinzione che prima o poi il suo Carmine avrebbe telefonato e chiarito i motivi di quella sparizione. Papà Raffaele sperava. Così la mamma, le sorelle, i parenti.

Ma quel barlume di ottimismo cozzava contro le testimonianze, anche se frammentarie, che avevano visto Carmine trascinato via dalla sua auto, parcheggiata davanti il condominio di via Piero Della Lena al quartiere Varignano: da qualche giorno, infatti il ragazzo aveva deciso di dormire in macchina dopo avere litigato con il padre. Nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Carmine, gli inquirenti non ebbero dubbi: non si trattava di un rapimento a scopo di estorsione. Non ci sarebbe stata alcuna richiesta di riscatto. Papà Raffaele era un semplice operaio, un lavoratore che cercava di non far mancare niente alla sua famiglia. L’unica certezza era questa.

Per il resto un labirinto di congetture molto simile a quello di Cnosso, che in certi fasi dell’inchiesta ha finito per far perdere il bandolo della matassa. Gli inquirenti non tirarono i remi in barca, visto che qualcosa avevano in mano, una parte di un numero di targa di un’auto sulla quale sarebbe stato scaraventato Carmine dopo il rapimento. Ma le due persone che avevano in dotazione la vettura, una Fiat 131 gialla – per qualche giorno, come indagati, finirono in carcere, perché c’era il timore della fuga – riuscirono a dimostrare di avere un alibi inattaccabile che convinse il giudice a revocare il provvedimento.

Ma cosa c’era dietro quel rapimento? Nessuno trovata una risposta che poggiasse su dati oggettivi. E mentre le indagini procedevano a passo lento, a casa Porrino le giornate erano punteggiate da telefonate anonime, un autentico stillicidio, che annunciavano la presenza del corpo del ragazzo o in fossi o in campi di periferia. Tutte segnalazioni che si rivelavano delle autentiche bufale. Ma papà Raffaele e le figlie, spesso riuscivano ad anticipare i carabinieri, raggiungevano il campo indicato dai misteriosi interlocutori e con la pala si mettevano a cercare il corpo di Carmine. Erano scene che toccavano il cuore. C’era la speranza e che poi diventava disperazione, la miscela che veniva fuori era uno sgomento che di volta in volta era sempre più profondo. “Ma perché ci fanno questo?” diceva, con la voce increspata dal dolore, papà Raffaele. “Perché? Fateci sapere qualcosa”. Tutti gli appelli rimanevano senza risposta. Anzi le risposte erano ancora altre segnalazioni, spesso frutto di menti malate. In un’occasione, per dare seguito alla segnalazione anonima (“il corpo del ragazzo è su un campo di granturco, adiacente alla via Aurelia a Migliarino Pisano, poco prima dell’imboccatura della Firenze-Mare”), venne addirittura messo a soqquadro l’intero appezzamento, mandando alla malora tutte le piante. Con costi a carico dello Stato, visto che i carabinieri impiegarono personale specializzato.

Nei primi anni successivi alla scomparsa di Carmine, anche la Rai e le emergenti tv commerciali dedicarono servizi al caso, con collegamenti in diretta da Viareggio. C’era ancora la speranza che qualcosa potesse venire fuori, magari un pentito che vinto dal rimorso, in qualche modo, facesse sapere qualcosa. Ma non servì neppure la prospettiva di illuminare con i riflettori della ribalta tv chi – per un quarto d’ora di celebrità – poteva raccontare almeno un briciolo di verità. Neppure quello.

Giovanni Lorenzini