A voler essere sinceri è stato un Maestro un po’ per tutti. Ma non gli avrebbe fatto piacere sentirselo dire, perché un grande umorista - pur essendo ben conscio delle proprie doti - prima di tutto sminuisce se stesso. Fino a prenderci pure gusto. Il curriculum, però, certifica che Enrico Vaime (ci manca dal marzo del ‘21) ha attraversato e creato decenni di televisione, di radio e di teatro, lavorando - e godendone l’amicizia - con alcuni tra i più bei cervelli del Novecento spettacolare e creativo: per dirne solo due, nel mazzo dei portenti, Ennio Flaiano e Marcello Marchesi. Erano, Enrico e loro, talmente acuti nel leggere la comune tragicomicità del vivere, talmente realisti da sembrare esagerati. Vaime, in più, aveva l’abito fiero della sua umbritudine, che gli forniva una lente nitida da puntare sui comportamenti umani, e che gli armava la penna per castigare ridendo sia le immoralità di omuncoli famosi sia i comuni difetti dell’italiota medio. Ma anche per ergersi - sempre con tagliente, amaro sorriso - in severe pagine che fremono di impegno civile.
Il percorso, le annate di questa genialità doc (venate di ironia ad alzo zero contro gli immeritevoli) le potete ritrovare ora in quella accurata, certosina prova d’affetto - e di giusta ammirazione per un grande autore - che è il volume “Enrico” (Futura libri, 326 pagine, 24 euro) scritto e curato con la passione che gli è propria da Umberto Marini. Che di Vaime fu vero amico, forse il più grande e il più prossimo al suo cuore, se è vero che vedendoli insieme li scambiavano quasi per fratelli. Non è una agiografia, non è una biografia: è, semplicemente, la porta più certa per entrare – divertendosi molto – nella carriera di Vaime, nella vita, negli umori creativi e nelle sottili malinconie che ogni vero umorista alberga dentro di sé (dissimulandole nel crepitio di battute che sanno mettere a nudo ogni certezza).
Umberto custodisce migliaia di scritti di quella poderosa macchina da show che è stato il ’suo’ Enrico, ed è riuscito nel miracolo di condensare in un libro - comunque non esile - l’essenza della creatività di uno straordinario autore la cui grandezza era stare dietro le quinte e mettere in bocca ai volti noti (da Walter Chiari a Villaggio, da Vianello a Montesano) battute che poi avrebbero strappato applausi e riempito i teatri, o decretato il successo di un programma dell’amatissima radio.
Su tutto - a legare insieme i rivoli di un estro poliedrico, a motivare indole, inclinazione, carattere di un certo ‘sentire’ - c’è l’amalgama della comune peruginità: Enrico nato in Corso Cavour nel ’36, Umberto a Porta Pesa due anni prima. Il che è molto di più di una coincidenza se è vero che Marini - giornalista, scrittore e saggio gaudente, come Vaime, del lato meno chiassoso delle cose - ha condiviso con lui una comunanza di spirito e un’amicizia che dai pinnacoli dell’adolescenza si è spinta a guardare lontano, avanti, fino non perdersi mai. La durata di una vita. Solo grazie a questa intimità tra i due (che fu anche intimità di famiglie), ai ritorni di Enrico nella sua mai dimenticata Umbria - quei pomeriggi nella villa di Vaime a San Feliciano erano un nostos scaccia-superfluo - è stato possibile a Marini tracciare, per via di scritti, citazioni, testimonianze, interviste e aforismi, un ritratto vero e veritiero dell’uomo, oltre che dell’autore.
“Enrico” è un libro illuminato e illuminante, tutto da leggere e rileggere, dove il guizzo della battuta fulminante non toglie luce alla forza degli sdegni civili, e dove le scaglie d’oro dell’ironia impreziosiscono anche riflessioni ultime sull’uomo, pur se Vaime stesso (troppo scaltro per cadere nella seriosità) le fa apparire in scena agghindate, apparentemente lievi, dei lustrini di quel varietà di cui - anche qui - è stato maestro. Appunto: Maestro. Ci risiamo. Lui avrebbe rifiutato d’essere ingessato dentro questa definizione in doppio petto. Ma io devo dire la verità. E - in questo caso - neanche a costo di mentire.
pier paolo ciuffi