Aurora Matteucci. Prima donna presidente della Camera Penale. La sfida: civiltà e diritti

"Il penale è un lavoro faticoso, non ha orari e questo non aiuta perché è difficile coniugare l’impegno con la cura della famiglia . Ci sono ancora gap retributivi nei confronti dei colleghi uomini".

Aurora Matteucci. Prima donna presidente della Camera Penale. La sfida: civiltà e diritti

Aurora Matteucci. Prima donna presidente della Camera Penale. La sfida: civiltà e diritti

Aurora Matteucci, prima donna alla guida della Camera Penale di Livorno.

Avvocata, un incarico importante, un punto di arrivo ma anche di partenza?

"Oggi possiamo dire che le donne hanno raggiunto e superato i colleghi uomini che fanno questa professione. Il problema si pone rispetto ai ruoli di rappresentanza. C’è stato anche uno studio redatto dall’osservatorio nazionale per le pari opportunità ed è emerso un gap retributivo importante. Si registrano retribuzioni inferiori dovute alla necessità di assecondare il doppio sì: famiglia, genitori e figli e lavoro".

Nota dolente quella delle conciliazione della famiglia con il lavoro. Qual è la sua opinione?

"Il penale è un lavoro faticoso perché non ha orari. E’ difficile coniugarlo con l’attività di cura. Nel nostro ordinamento, per anni, il legittimo impedimento per maternità era stato lasciato al buon cuore del giudice o di qualche protocollo sparuto, ma non c’era una vera e propria legge che è entrata in vigore nel 2017, solo pochi anni fa. Con una norma che vale per tutti i tribunali e non a macchia di leopardo; questo ha garantito una parificazione dell’avvocata alla dipendente pubblica. Un traguardo di civiltà ma la strada è ancora in salita, nonostante ci siano stati considerevoli cambiamenti".

Cosa ne pensa della politica?

"Mi sembra che in politica forse le cose sono un po’ migliorate anche se abbiamo una presidente del consiglio donna che si fa chiamare ’Il presidente del consiglio’, non mi pare che rappresenti molto le istanze di un cambio di passo culturale".

E lei come si fa chiamare?

"Avvocata".

Come è arrivata a fare questo lavoro?

"E’ stata una scelta. Non mi sono mai guardata indietro".

Il momento più difficile?

"Il penalista soffre un grosso problema sociale. E’ invalsa l’idea che noi siamo complici degli imputati che difendiamo. Quando arriviamo a difendere imputati accusati di reati odiosi per la collettività, veniamo sottoposti a una serie di offese".

Come fa una donna a difendere un uomo accusato di violenza di genere?

"La difesa di questi imputati è diventata molto ardua perché il sentire comune è che devono marcire in carcere. Nostro compito è spiegare che tutti gli accusati hanno diritto a un processo giusto. Penso all’ultimissima petizione su Change.org affinché l’Università di Padova intimasse al difensore di Turetta di non difenderlo in quanto reo confesso. Questo ci dà la misura di cosa sia diventato il nostro Paese. Ci sentiamo sentinelle della Costituzione".

Una sua grande battaglia è quella sul rispetto dei diritti dentro il carcere.

"In Italia muore un detenuto ogni 60 ore. Ci dobbiamo interrogare. Anche a Livorno ci sono gravi carenze sia sanitarie che dal punto di vista delle possibilità trattamentali e anche delle difficoltà logistiche. Diventerà molto più grande, serviranno più educatori e anche più polizia penitenziaria, più attività con il rischio che diventi una fabbrica di reati".

Più carcere uguale più sicurezza?

"Direi l’opposto. La recidiva è ridotta quando l’esecuzione della pena è all’esterno. Una pena che sia tutta eseguita in carcere non si può dire in linea con la Costituzione. La maggior parte dei locali è fatiscente, c’è sovraffollamento, celle con bagni alla turca accanto ai fornelli. Bisogni primari non trovano una distinzione. Il numero dei suicidi in aumento è un grido di dolore. Molti detenuti si suicidano quando arrivano a fine pena, perché c’è un vuoto davanti di una vita che per molti è considerata un baratro".