La fregatura di produrre mascherine. "Noi imprenditori già dimenticati". Ecco perché

Passata l’emergenza sono tornate le vecchie procedure d’appalto. Vinte sempre da chi importa dalla Cina e non da chi produce in Italia. Ranaldo (Pointex): "Prima lo Stato ci ha pregato di riconvertirci, ora ci liquida con un semplice grazie"

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Prato, 6 agosto 2020 - "Partecipare ai bandi pubblici per le forniture sanitarie rispettando tutte le regole e le certificazioni imposte dallo Stato, di fatto esclude a priori le aziende produttrici italiane da una possibile vittoria dell’appalto". Lo chiama ’gap-paese’ Marco Ranaldo, patron della Pointex, azienda leader nella produzione di tessuti tecnici e per materassi, che nel periodo dell’emergenza sanitaria ha raccolto l’invito delle istituzioni e si è messa in gioco iniziando a produrre mascherine in un momento in cui l’Italia chiedeva aiuto e investendo soldi in un momento in cui chiunque aveva paura a spendere. Ora che l’emergenza si è in parte placata, tutto è tornato come prima e chi, come Ranalado, ha investito si è visto liquidare con un ‘grazie’ dalle stesse istituzioni che solo pochi mesi fa gli avevano chiesto aiuto.

Il problema sono i bandi: l’ultimo pubblicato da Estar, la centrale acquisti della Regione - quattro lotti per 15 milioni di mascherine - risale alla settimana scorsa. La Pointex, come altre imprese italiane, ha partecipato, ma la fornitura è andata a cinque imprese importatrici, che acquistano le mascherine in Cina. Stesso copione per i quattro bandi pubblicati nelle settimane scorse. La verità è che le imprese che producono mascherine in Italia non possono reggere il confronto con l’estero: i costi di produzione sono talmente inferiori nell’Est del mondo che non ci può essere partita. E così il lavoro che c’è non resta qui.

"Vorrei mettere in evidenza lo stato dell’arte sull’evoluzione della produzione delle mascherine e degli altri indumenti di protezione individuale post emergenza Covid. Un tema che riguarda tutte le aziende nazionali che hanno iniziato industrialmente una produzione di questi materiali nel pieno rispetto delle normative vigenti e che ora si vedono, di fatto, escluse dall’accesso alle commesse pubbliche a favore del materiale di importazione", racconta Ranaldo. Da qualche settimana, finito il regime di emergenza, tutti gli acquisti degli enti pubblici e della pubblica amministrazione vengono nuovamente effettuati mediante bandi. Essere ammessi non è facile, servono requisiti aziendali specifici ed una serie infinita di documenti e certificazioni sia di prodotto che di processo.

"Prima del Covid 19 - aggiunge l’imprenditore - non esisteva praticamente più in Italia alcuna produzione nazionale di mascherine né di altri tipi di indumenti per la protezione individuale, disintegrata negli anni dalle importazioni selvagge, specie dal gigante cinese. Durante l’emergenza abbiamo avuto modo di verificare sulla nostra pelle che, quando l’Italia ha avuto bisogno di questi materiali e gli stessi materiali servivano anche al paese produttore, ossia alla Cina, ci siamo dovuti arrangiare perché il materiale non arrivava e se arrivava era di qualità scadente e venduto a prezzi strabilianti. Ci siamo trovati tanto in difficoltà che il governo ha dovuto attivare con urgenza una regolamentazione in deroga per iniziare una produzione nazionale che potesse far fronte all’emergenza".

"Lo Stato ha incentivato e quasi pregato chiunque ne avesse la possibilità ad attivare produzioni di mascherine promettendo contributi economici, nel nostro caso mai arrivati, ma soprattutto illudendoci che una volta finita la pandemia, avrebbe sostenuto questa nuova industria, dandole la possibilità di continuare a fornire la pubblica amministrazione". Ed è qui che le speranze degli imprenditori sono infrante con la burocrazia e le leggi. "Pura illusione. I bandi aperti dopo la fine dell’emergenza sono esattamente strutturati come quelli di prima del Covid, tutti a pro importazione. Tanto che, per esempio, anche l’ultimo bando Estar della scorsa settimana è stato assegnato a cinque aziende importatrici. Neanche una mascherina verrà prodotta né in Toscana né in Italia". Le differenze di prezzo tra un materiale prodotto in Cina e in Italia si aggirano attorno al 10-15%. Non molto, ma quanto basta per perdere la gara.

"E poi mentre una produzione nazionale può essere controllata in ogni momento della filiera, una mascherina di importazione non può essere controllata se non mandando gli organi competenti nei luoghi di produzione. Pura fantasia. Sarebbe interessante chiedere agli Italiani se preferirebbero comprare una mascherina prodotta in Italia a cinque centesimi in più oppure favorire un’importazione selvaggia e speculatrice da paesi come la Cina senza nessun controllo efficace della qualità. La politica e le istituzioni dovrebbero avere il coraggio di modificare i bandi - conclude Ranaldo - in modo da attribuire alle produzioni nazionali un piccolo bonus, che possa compensare il gap paese e dare ai produttori nazionali una possibilità sugli importatori’". E così nel post Covid non restano che amarezza, frustrazione e rabbia: "Ancora una volta ci sentiamo abbandonati da chi avrebbe il dovere di tutelarci".