Roma, 9 giugno 2025 – Il referendum abrogativo è uno strumento prezioso per la nostra democrazia, soprattutto dopo l’adozione di sistemi elettorali che contengono correttivi maggioritari. Grazie a questi ultimi una maggioranza relativa in voti può essere trasformata in maggioranza assoluta in seggi per consentire agli elettori una scelta diretta del governo. Una scelta giusta, che però comporta un effetto collaterale: aumenta il rischio che i costituenti avevano individuato e per il quale avevano ideato questo tipo di strumento di correzione, ossia che una maggioranza parlamentare su alcuni temi, implementando il proprio programma con leggi, potesse non corrispondere a una maggioranza nel Paese.

È bene quindi per tutti che lo strumento venga rafforzato attraverso una doppia modifica. Per un verso, una maggiore severità in entrata aumentando il numero delle firme: del resto, al netto delle maggiori facilità per raccoglierle, va ricordato che gli elettori erano meno di 30 milioni quando la Costituente fissò la soglia a cinquecentomila firme, mentre oggi sono oltre 50. Una maggiore rappresentatività è necessaria. Per altro verso, una riduzione del quorum che tenga conto dei mutamenti dell’elettorato. La pura e semplice eliminazione sarebbe sbagliata perché si rischia di abrogare una legge votata dal Parlamento da parte di piccole minoranze intense scarsamente rappresentative. Quando alle elezioni politiche, per parlare di quelle in cui si vota di più e in cui si elegge il Parlamento, un elettore su tre diserta le urne (mentre era uno su dieci alla Costituente) è doveroso tenerne conto. Da qui l’idea, da più parti sostenuta, di ridurre il quorum alla metà più uno dei votanti alle ultime Politiche. Un ragionevole quorum mobile. La riforma Renzi bocciata nel 2016 aveva sommato vecchio e nuovo: aveva inserito questa nuova soluzione (ottocentomila firme e quorum ridotto) sommandola alla vecchia (cinquecentomila e metà più uno): una soluzione ingegnosa, ma non del tutto convincente. Tanto vale, una volta che si inserisce quell’innovazione, renderla esclusiva.
Questo dibattito è importante e va rilanciato. Non può però essere usato come una cortina fumogena per distorcere l’analisi del grave insuccesso di questo voto. La riforma è giusta, ma finché non è approvata ciascuno ha il dovere di giocare con le regole esistenti e di non tentare avventure minoritarie, non in grado di giungere se non al quorum almeno a un risultato dignitoso. O, quanto meno, se nonostante i propri desideri alla fine non vi arriva, deve avere l’onestà intellettuale e politica di ammettere la sconfitta.
Ora, dal momento che c’è un vasto consenso sulla soluzione del quorum ridotto alla metà più uno, arrivare al 28 per cento (compresi gli elettori all’estero) quando alle Politiche del 2022 aveva votato il 64, è indubbio che significhi aver subito una pesante sconfitta. Conosco ovviamente la controreplica: se fosse stato già in vigore il nuovo sistema, forse la maggioranza pro tempore non avrebbe scelto l’astensione. Questo è certamente possibile: ma da qui a ritenersi soddisfatti per aver registrato una partecipazione inferiore a quella del referendum sulle trivelle, sostenuto da un arco ben più ristretto di forze, ce ne dovrebbe correre.
Anche la propaganda politica dovrebbe avere dei limiti nel proporre letture del voto, evitando peraltro, come è avvenuto, di proporre di sommare i Sì e i No, le nulle e le bianche, come espressioni diverse di una volontà comune di sostegno ai promotori che invece si esprime solo col Sì.
* Costituzionalista